Vita e Morte, 5 film d’animazione per riflettere

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Un uomo scende nel regno dei morti alla ricerca della sua amata, con l’intento di riportarla con sé nel mondo dei vivi: l’impensabile ritorno viene accordato, l’eroe però cede alla tentazione di guardare la donna prima che gli sia consentito e così facendo la perde per sempre.

Orfeo ed Euridice? Se vi dicessi invece che questo è il riassunto anche di una antichissima leggenda giapponese, che si fonde con il mito della creazione della Terra? Si narra infatti che le divinità inviarono sulle acque Izanagi e Izanami (l’essenza maschile e l’essenza femminile, fratello e sorella, sposi come gli occidentali Zeus ed Era), per dare vita alla prima isola e per generare altri dei; Izanami però morì dando alla luce uno dei figli e così il compagno si avventurò nell’oltretomba alla sua ricerca.

Da questo racconto inizia l’avventura di un insegnante (vedovo) e una sua allieva (orfana di padre), protagonisti del film d’animazione Viaggio verso Agartha (2011) di Makoto Shinkai, regista che ha ottenuto la fama internazionale nel 2016 con l’acclamato Your Name; in Italia questo suo precedente lavoro è stato ripubblicato nel 2019 con un nuovo doppiaggio e il titolo I bambini che inseguono le stelle, fedele all’originale.

Agartha
Agartha

Agartha, al centro della Terra, non è solo il regno dei morti, ma è anche un luogo mitico che nasce da quella volontà dell’uomo di scoprire una civiltà più avanzata a cui poter sottrarre ricchezze e conoscenze (come ad esempio Atlantide); una leggenda che appartiene alla cultura asiatica e che ha avuto anche un periodo di successo in Occidente a partire dall’Ottocento e persino durante il regime nazista.

A livello visivo oltre che tematico questo film è un continuo omaggio alle opere del maestro Miyazaki: quasi ogni scena richiama qualcosa di già visto, in particolare elementi di Princess Mononoke e Laputa, ma sono anche presenti quei dettagli essenziali che contraddistinguono le opere di Shinkai, come le incredibili volte stellate.

Il viaggio compiuto dai protagonisti è metafora del nostro viaggio interiore, il nostro interrogarci su argomenti complessi e delicati come la morte, la resurrezione e la reincarnazione.

Una lettera per momo
Una lettera per Momo

Comunicare con l’aldilà è da sempre uno dei più grandi desideri dell’essere umano: in Una lettera per Momo (Hiroyuki Okiura, 2011) la protagonista è una bambina che ha perso il padre e che vorrebbe disperatamente conoscere il contenuto di una lettera che lui aveva iniziato a scriverle, ma che non ha mai potuto portare a compimento. Saranno tre strani demoni provenienti dalla dimensione degli spiriti ad aiutarla a superare il lutto; questo film alterna momenti esilaranti ad altri più drammatici e invita a riflettere su come la vita sia inarrestabile, dandoci il coraggio di tuffarci[1].

La morte è inevitabile e per questo un’altra delle grandi ricerche dell’uomo è quella della vita eterna, la possibilità di non invecchiare mai e rimandare il momento tanto temuto. Elementi fantasy (un misterioso popolo con il dono della longevità, draghi e maledizioni) si mescolano in Maquia – When the promised flower blooms (Mari Okada, 2018), dove al centro di tutto c’è uno straordinario legame d’amore. Ho apprezzato in modo particolare la delicatezza del regista nel mettere a nudo i sentimenti di Maquia, una ragazza che ha scelto di adottare un bambino per salvarlo dalla morte e per salvare sé stessa dalla solitudine, che non potranno non commuovervi almeno un po’.

A suo modo toccante è anche Big Fish & Begonia (Liang Xuan – Zhang Chun, 2016), una produzione cinese che si ispira a leggende tradizionali ma che utilizza una grafica tipicamente “ghibliana” (sono riconoscibili ad esempio alcuni rimandi a La città incantata di Miyazaki).

Vita e Morte: Big Fish & Begonia
Big Fish & Begonia

Un patto per far tornare indietro dalla morte un ragazzo che le ha salvato la vita, e le conseguenze che questa azione avrà sul mondo: una trama apparentemente semplice che si fa via via più ingarbugliata e che lascia lo spettatore a tratti confuso, ma allo stesso tempo ammaliato dalle immagini spettacolari. Non sono sicura di averlo compreso appieno, ma sono certa che meriti una possibilità anche solo per i numerosi interrogativi che lascia.

Quattro film che raccontano la Vita e la Morte attraverso la fantasia, il soprannaturale, mondi lontani. Eppure non c’è nulla di più concreto e meno magico, niente che sia così tangibile e reale, e questo ci viene rammentato quasi con crudezza da un’opera che non ha eguali: La tartaruga rossa (Michaël Dudok de Wit, 2016). Rara collaborazione tra Francia, Belgio e Giappone, un capolavoro per la qualità del disegno e la scelta inconsueta di non inserire alcun dialogo, ma non crediate che si tratti di un film muto: è anzi assordante. Le parole umane sono assenti perché lasciano spazio alla voce imperiosa e dimenticata della natura; lo spettatore è circondato da suoni a cui non sappiamo più prestare attenzione, tutti da imparare a riconoscere di nuovo.

Senza le parole non c’è nessuna spiegazione, nessuna risposta alle nostre domande: restano i nudi fatti, le sensazioni più primordiali dell’uomo, e la nostra possibilità di interpretare ciò che vediamo secondo i nostri schemi mentali, le nostre esperienze di vita, i nostri sentimenti contrastanti.

Vita e morte: La tartaruga rossa
La tartaruga rossa

È un esperimento coraggioso, frutto di un lavoro intenso e ammirevole.

I colori parlano all’anima, senza bisogno di traduzione; l’universalità data dall’assenza di linguaggio umano rende ancora più spettacolare questa storia, che chiunque nel mondo può fruire senza che ci sia la necessità di alcuna minima variazione né traduzione. Non c’è nessuna cultura, nessun sostrato, alla base dei comportamenti umani che vediamo sullo schermo: ogni azione è dettata esclusivamente da quell’istinto di sopravvivenza che, per quanto possiamo evolverci, ci accomuna comunque tutti.

Al termine del film si rimane come storditi, cercando di elaborare ciò che abbiamo visto. Vi sono molti messaggi diversi che ognuno può recepire, in base alla sua sensibilità, e uno di quelli più attuali in questo periodo credo che sia che nulla ci è dovuto: la natura dà, la natura toglie. Una natura crudele e amorevole al tempo stesso, che sembra prendersi cura delle sue creature ma secondo una sua logica, che talvolta ci risulta incomprensibile. Eppure a ogni morte corrisponde una rinascita, questo è ciò che la tartaruga rappresenta: la Vita è composta da gioie e sofferenze, ma l’uomo non è lasciato da solo ad affrontarla.

Erica Rinaldi
Erica Maria Rinaldi

Classe 1993, sono cresciuta a Novara dove ho frequentato il liceo classico, poi mi sono trasferita a Pavia per studiare Lettere e mi sono laureata in Filologia Moderna con una tesi su Mario Pomilio; amo leggere (ovviamente, sennò che ci starei a fare qui), mangiare, vedere film e quando possibile spettacoli teatrali, fare sport ed essere estremamente pigra a fasi alterne. Il mio motto: Il mondo è bello perché è vario!