Il visuale in musica: i suoni e la loro rappresentazione

Visuale in musica

Perché rappresentare la musica? Come mai e in che modalità si è sentita la necessità di trovare un codice che potesse rappresentare il suono? Ma, soprattutto, quante tipologie differenti di notazione ci sono state fino ad ora?

Siamo soliti abbinare la musica principalmente a due immaginari di scrittura, dalla chiave di violino con note nere o bianche e con o senza stanghette a seconda della loro durata, alle tablature e sigle che definiscono gli accordi da usare nell’esecuzione di un brano. Spesso si tende anche ad associare l’uno o l’altro a generi musicali differenti; così chi viene da una formazione classica principalmente conoscerà la notazione chiamata “tradizionale”, al contrario chi viene da altri contesti come il jazz, il pop o il blues tenderà, anche proprio per la forma stessa della musica, ad usare notazioni differenti.

Ritornando al primo quesito, ovviamente, la notazione è stata creata per poter dare la possibilità di ricreare una determinata melodia e per poter far suonare a qualcun altro un determinato brano. C’è sempre da tenere conto che prima dell’invenzione del fonografo di Edison la scrittura, in qualsiasi forma la si voglia intendere, era l’unica modalità per assicurare l’immortalità e il passaggio di generazione in generazione di una determinata musica. Non citiamo ovviamente tutta quella che è la grande tradizione di trasmissione orale presente soprattutto nelle culture orientali che rappresenta un argomento molto interessante ma che meriterebbe un approfondimento a sé.

Diversa è la notazione, diversa è la modalità di esecuzione; una notazione tradizionale dove sono rappresentati tutti i suoni dall’inizio alla fine della composizione, come possono essere le sonate di Beethoven, le sinfonie di Mahler o i concerti di Mozart, insomma principalmente tutta la musica del periodo classico e romantico, pone l’esecutore in una posizione di lettore e interprete, ma, come per l’appunto suggerisce il nome, il suo ruolo è di eseguire un qualcosa scritto da altri. La notazione tradizionale risulta allora perfetta per le dimensioni orchestrali, un codice che studiato permette di imparare la professione di musicista (fanno eccezione le Cadenze, momenti di creazione e libertà all’interno di concerti e sonate).

Notzione tradizionale e tablatura
L’attacco di Michelle dei Beatles in tablatura (in alto) e notazione tradizionale (in basso)

Più la notazione è precisa più sarà vincolante per l’esecutore: al contrario cosa vuol dire lasciare più libertà all’interprete? Vuol dire rendere l’interprete anche co-compositore.

Nel Novecento, ma anche nei secoli precedenti, l’elemento fondamentale nella creazione ed esecuzione musicale è ed era l’improvvisazione. Nel barocco, ad esempio, era tipico indicare il basso numerato, cioè una successione di note gravi con un numero che ne indicava l’armonizzazione, ma era compito dell’esecutore creare e improvvisare nell’immediato l’accompagnamento della melodia; Bach stesso era un improvvisatore e dalle improvvisazioni creava le composizioni.

Il Novecento è un periodo di grandi cambiamenti e sperimentazioni musicali, è il secolo in cui le armonie e i modi musicali vengono destrutturati. Da Stockhausen a Cage a Feldman a molti altri, c’e desiderio di trovare un nuovo linguaggio e quindi di conseguenza una notazione differente. Le notazioni diventano direzionali, gestuali, teatrali, visuali, verbali, alcune sempre prescrittive per l’esecutore, altre che lasciano la possibilità di creare e comporre in estemporanea sotto suggestione di questa scrittura non convenzionale. L’improvvisazione, oramai in disuso, sicuramente anche grazie al jazz che ne fa un suo elemento caratteristico, torna come prassi fondamentale nella musica colta e di avanguardia.

Ci sarebbe un’infinità di partiture e compositori di cui parlare, da Kagel che con il suo Match del 1966 ricrea una partita di ping pong tra due violoncellisti, a De natura Sonoris dello stesso anno di Penderecki, che tutti almeno una volta abbiamo sentito come colonna sonora di Shining, a Gesti sul piano del 1962 di Giuseppe Chiari, al Klavierstück X,  composizione del 1957 di Stockhausen formata da 19 frammenti da suonare nell’ordine in cui l’hic et nunc conduce l’esecutore. Insomma la panoramica delle partiture non tradizionali risulta davvero vasta e diversa, per questo motivo ho scelto di soffermarmi principalmente sulla figura di un compositore, l’inglese Cornelius Cardew, perché a mio avviso con la sua produzione sintetizza e rappresenta molte delle sperimentazioni elaborate nel ‘900.

Treatise
Pagina 187 di Treatise di Cornelius Cardew, 1967

Come prima cosa è curioso sapere che Cardew, a partire da una formazione accademica, ha fin da subito frequentato gli ambienti di sperimentazione e di improvvisazione, entrando quindi in contatto con due mondi musicali differenti nell’approccio e nel contenuto, lavorando ad esempio come assistente di Stockhausen a Lipsia, ma allo stesso tempo frequentando i collettivi di improvvisazioni quali il Gruppo di Nuova Consonanza guidato da Franco Evangelisti e l’AMM, realtà formata principalmente da musicisti provenienti dall’area jazzistica. Questa formazione così variegata ha ovviamente influito sulla sua produzione, portando Cardew a comporre in maniera seriale, aleatoria, di sperimentazione e avanguardia fino all’improvvisazione pura, il tutto meravigliosamente affiancato da una linea più pop che lo ha condotto fino al suo ultimo periodo con la People’s Liberation Orchestra di cantautorato politico: tante aree musicali diverse che gli hanno dato la possibilità di sperimentare diverse modalità di notazione.

Oltre questa poliedricità musicale, quello che è stato il motore per la creazione e uso di notazioni così diversificate e lontane da quella tradizionale era il pensiero di base del compositore inglese, cioè di intendere la musica come un linguaggio naturale. Concepiva la musica e l’arte come mezzo per automigliorarsi nell’individualità e nella collettiva, per cui era necessario trovare dei codici di traduzione della musica interpretabili da tutti, anche da chi non avesse una formazione musicale. Così anche solo delle immagini, forme e testi scritti potevano funzionare da partitura evocativa per chi le leggeva e suonava.

I due casi più eclatanti della produzione di Cardew sono la meravigliosa composizione di 193 pagine con disegni grafici Treatise, del 1967, e una delle ultime composizioni scritte per la Scratch Orchestra, The Great Learning del 1971.

Treatise è un opera d’arte, un capolavoro visuale, composto da forme, linee, elementi musicali inseriti all’interno di contesti visuali non usuali, è come un libro d’arte, ispirato, come anche suggerisce il nome, al Tractatus di Wittgenstein.

The Great Learning nasce nel periodo della Scratch Orchestra, ed è una partitura molto interessante in quanto al suo interno vengono usati diversi tipi di notazione, proprio perché nell’Orchestra erano presenti artisti di diversa provenienza e non solo musicisti, ed era quindi necessario trovare codici di scrittura differenti per poterla eseguire ed interpretare da parte di tutti. Sono sette paragrafi, si passa dalla notazione verbale, che funziona da evocazione, a quella grafica e visuale, a quella direzionale, in cui sembra che ci siano scritte delle note precise, ma in realtà viene solo indicato l’andamento delle altezze e quindi della melodia: diventa così compito dell’esecutore scegliere da quali note partire e quali note fare.

Alcuni brani sono presenti in forma di gioco, altri come sketch teatrali e spettacoli di mimo; Cardew riprende anche la notazione tradizionale ma scompone il brano in tanti frammenti, e assegna il compito all’esecutore di mettere assieme in maniera contrappuntistica le diverse porzioni del brano — idea vicina a Klavierstück XI (1957) di Stockhausen, a In C (1964) di Terry Riley e al suo brano Octet 61 (1961), brani “scomposti” e pensati a frammenti o battute da suonare, scegliendo l’ordine nel momento stesso della performance, nel caso di Klavierstück XI , sovrapposte da suonare una dopo l’altra per quanto riguarda il brano In C, o in maniera evocativa per quanto riguarda Octet 61.

Tutto può diventare notazione musicale, basta decidere in che modo interpretare e tradurre il codice visuale, verbale, grafico, gestuale, in quello dei suoni. L’interpretazione e la traduzione di queste partiture può essere guidata dal compositore con una legenda che indichi il significato dei vari simboli, oppure liberamente. Nel secondo caso i ruoli di esecutore e compositore si contaminano e in questa dimensione, in cui il musicista diventa creatore, l’improvvisazione torna ad avere un ruolo fondamentale di spinta vitale e di creazione. Cardew mette in relazione il concetto di vita a quello di improvvisazione: sono due forme in movimento, due forme vitali ma legate alla possibilità di fallire, la vita con la morte, l’improvvisazione nell’errore, ma è proprio questo loro legame con la fallibilità che le rende così uniche, creative e vitali.

Cornelius Cardew, The Great Learning
Una pagina della partitura di The Great Learning di Cornelius Cardew

Parlare di improvvisazione significa riferirsi ad un insieme vastissimo di immaginari musicali: c’è chi associa il termine improvvisazione all’idea di suonare a caso, che erroneamente deriva da un fraintendimento dell’uso di questa prassi nel free jazz, altri più generalmente al jazz, che ne ha fatto il suo elemento caratteristico, altri a prassi più antiche (come il basso continuo, le cadenze nei concerti, le toccate e fughe). Si pensa a un’ improvvisazione sempre legata a un genere musicale o periodo, ma è anche interessante parlare di improvvisazione non idiomatica, cioè non legata a uno stile preciso né a un periodo storico determinato, un’improvvisazione che si crea a partire dalla musica stessa, intervalli, scelta del timbro, armonie, maschere e che risente ovviamente della formazione e bagaglio culturale del musicista.

Riassumendo, nella lettura di una partitura visuale sono da tenere in conto per l’appunto questi due elementi: l’idea che si sta suonando, a meno di indicazioni precise del compositore, con la propria interpretazione, quindi secondo la propria soggettività traducendo un codice artistico in un altro, e l’importanza dell’improvvisazione intesa come motore creativo e che si porta dietro le conoscenze, gusti, caratteristiche e identità del musicista.

Per queste meravigliose connessioni tra i vari mondi artistici, sono tantissimi gli interscambi tra diverse correnti: tra i più conosciuti quello tra Kandinsky e Schoenberg, pittura e musica, il tutto documentato nella corrispondenza epistolare. Qui ad esempio abbiamo un processo inverso, da suoni a pennellate: Kandinsky dipinge Impressione III: concerto (1911) dopo aver assistito a un concerto di Schoenberg a Monaco, inoltre il pittore usa termini tipicamente musicali, come composizione, improvvisazione, impressione e dissonanza per definire i suoi quadri e le modalità di creazione.

Gli scambi non sono mai in una direzione nelle arti, in questa logica anche dipinti o opere visive, nati autonomi rispetto a una sonorizzazione, possono diventare notazione e partitura; per fare due esempi, riporto due opere che ho musicato durante il mio percorso di violinista e di improvvisatrice: Dove una volta c’era stato il mare, un acrilico e matite su tela dell’artista Marianna Bussola e l’opera Mosaico arcobaleno dell’artista Sonia Bianco.

Marianna Bussola, un esempio di visuale in musica
Dove una volta c’era stato il mare, di Marianna Bussola

La lettura del primo quadro può avvenire dal basso verso l’alto. La parte inferiore con la presenza di conchiglie, sassi, silhouette a parvenza umana in posizione fetale, riportano a una dimensione ancestrale, antica, che musicalmente può essere associata alla scelta di una scala o un modo antico, come ad esempio la pentatonica. Questa scala è una successione di note, cinque suoni, (Do-Re-Mi-Sol-La) ed è la scala più immediata all’ascolto anche per un orecchio non educato e siamo soliti ad associarla alla tradizione giapponese. La seconda parte rappresenta, per me, la melodia del brano, la sua liricità che viene indicata dai rami che suggeriscono l’andamento della melodia, una notazione direzionale, in contrapposizione alla terza parte, estremamente ritmica e ripetitiva suggerita dalle forme geometriche e irregolari che si sviluppano per tutta la montagna. Ci sono anche altri due termini musicali che si adattano e definiscono perfettamente il dipinto come la politonalità e la poliritmia.

Il contrasto di tonalità tra i colori, dal rosso fuoco della montagna al bianco sfondo dei rami e al nero della montagna stessa, porta subito a pensare alla politonalità, che in musica si crea sovrapponendo o alternando due scale o tonalità differenti (ad es. Do Maggiore/ Re Maggiore). Allo stesso modo è suggestiva la diversità delle forme, dagli ovali ai quadrati e figurazioni geometriche irregolari, ritmi geometrici diversi che in musica diventano poliritmia sovrapponendo o alternando ritmi differenti.

Mosaico Arcobaleno di Sonia Bianco invece può essere interpretato come una sonata, una forma musicale formata da diversi movimenti, allegro, andante, vivace… che la caratterizzano. Il mosaico nella sua coerenza stilistica per me rappresenta la forma musicale della sonata, dove i colori e le piccole variazioni delle tessere ne richiamano i diversi movimenti. Ovviamente l’interpretazione, come sottolineavo prima, è soggettiva, il valore che per me ha un colore è sicuramente diverso dalla percezione di un l’altro; Scriabin compositore russo della fine dell’ottocento, ad esempio arrivò addirittura a pensare a una scala a colori, attribuendo a ogni nota e tonalità un colore determinato.

Mosaico Arcobaleno, sonia bianco: un esempio di visuale in musica
Mosaico Arcobaleno, di Sonia Bianco

Nel caso del Mosaico Arcobaleno ho associato quindi secondo il mio punto di vista a ogni colore una determinata caratteristica; così il blu diventa calma, mare, cielo, il verde mi porta all’antico e in questo caso uno dei sette modi musicali, il misolidio, il giallo mi porta a suonare prevalentemente su frequenze acute, mentre il rosso a usare ripetitività e ostinati con note più gravi, per poi arrivare alla sensualità del rosa, e alla destrutturazione che suscita il marrone, un mosaico di sensazioni e sinestesie che vanno a costruire la Sonata Arcobaleno.

Arte visiva e musica, ma non solo: il mosaico, come dice il mosaicista Maestro Felice Nittolo, lo si può fare in ogni momento, anche parlando perchè le lettere sono come le tessere, le parole il concetto dell’opera e la grammatica l’andamento. Lo stesso vale per la prassi della composizione e dell’improvvisazione: quando dobbiamo preparare un discorso lo componiamo, quando ci troviamo a parlare e creare flussi di pensieri lo creiamo e lo improvvisiamo, basandoci su quello che è il nostro vissuto e background.

Così, una volta che si hanno le chiavi di lettura e traduzioni dei codici, credo sia meraviglioso continuare a costruire ponti tra tutte le arti (i collegamenti sono ovunque) e interpretare un’opera visuale dal punto di vista di un musicista, di uno scrittore o di un altro artista come un fotografo e, a sua volta, ciascuna alla luce delle altre arti, non può che creare un’ulteriore opera d’arte ancora più interessante.

 


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Virginia Sutera
Virginia Sutera

È da sempre interessata allo sviluppo, alla creazione e composizione del linguaggio musicale e all'interazione della musica con le altri arti. Compone e crea musica in estemporanea per performance in solo, cameristiche, spettacoli teatrali e cortometraggi. Diplomata in violino presso il Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, specializzata all’accademia Chigiana di Siena e Laureata magistrale in Scienze della Musica e dello Spettacolo presso l’Università Statale di Milano ha collaborato con vari musicisti tra cui Franco Battiato, Franco Cerri, Gian Luigi Carlone (Banda Osiris) e Dudu Kouatè (Art Ensemble of Chicago).