Vado a fare un bagno
È arrivata in fondo alla lista
per lei c’è solo assistenza,
bisogno e tanta pazienza.È arrivata, la strada percorsa
da alcuni è dimenticata
forse solo l’asfalto macinato
dei piedi avrà ricordanza.È arrivata, lo sa bene,
delle povere cose
fatto l’inventario
rimane solo d’aspettare
l’ufficiale giudiziario che
sta per arrivare.Lei non l’aspetta, è arrivata,
il cielo è blu come a vent’anni
anche a ottant’anni si può sognare
ma lei è arrivata, non lo può fareVado a fare un bagno –
solo poche parole allegre
per chiudere con un sorriso
una vita trascorsa abbandonata.Il cielo è blu come a vent’anni
anch’ a ottant’anni si può sognare
lei non lo può più fare, ma
può sempre imparare a volare.
Ho scelto una mia poesia per parlare di due temi dolorosi: la vecchiaia e la crisi economica. Due temi spinosi in se stessi che, messi insieme, sono nitro e glicerina, la cui deflagrazione però investe solo chi in questo ingranaggio è perdente.
Questi versi sono ispirati a una storia vera, di cui non ricordo i particolari e volutamente non ho cercato di documentarmi, per lasciare interpretare liberamente i versi e per essere, al tempo stesso, goduti e discussi.
Ho detto che la vecchiaia è valore aggiunto, parlando della poetessa americana Robin Morgan. Una donna di successo che dalla vecchiaia trae linfa per trasmettere alle giovani generazioni soprattutto femminili quell’entusiasmo femminista e quell’orgoglio di genere.
Ben altra cosa è parlare di vecchiaia quando la protagonista è una povera ottantenne, dimenticata dalla famiglia, con una pensione sociale che non le garantisce neppure di pagare l’affitto di casa, tanto da subire uno sfratto esecutivo.
Questa vecchiaia povera, malata, sembra non avere alcun valore; semmai, è un peso per tutti. La maggior parte di anziani poveri e soli, che si nutrono grazie alla beneficienza e ai minimi sostegni istituzionali, se non ha una famiglia o almeno una casa di proprietà, sono destinati a marcire in qualche ospizio o peggio in strada, a contendersi il marciapiede con un altro disperato, annegando nell’urina e nell’alcool.

Ora, a parte l’affranta reazione suscitataci dalla pietà becera, c’è da capire se ci sono possibilità per reagire a questo strapotere economico, che impone austerità di risorse, salari sempre più bassi e precarietà, pretendendo in cambio competitività, flessibilità e creatività.
I progressi della medicina, la cultura e l’alimentazione degli ultimi quarant’anni hanno portato in Occidente all’innalzamento dell’età media delle persone e a una minore mortalità infantile. Tutto questo sarebbe positivo se non nascondesse l’insidia dei poteri economici, dai quali dipendono i destini delle popolazioni mondiali, noi compresi.
Se popoli più attenti e soprattutto onesti hanno saputo darsi regole, che tutelassero lo stato sociale senza danneggiare la competitività, in Italia hanno prevalso sempre gli interessi di parte e la disonestà, che non sono prerogative dei politici o degli amministratori, in quanto tali, è insita in noi, ormai connaturata con le nostre cellule più segrete. È un discorso immenso e non ho neppure le capacità per tediarvi con strane congetture e cifre, ma un’esortazione a noi tutti mi corre obbligo di farla: cerchiamo di cambiare la nostra testa, senza inutili sensi di colpa ma con la consapevolezza di avere una parte di torto, proporzionato al nostro ruolo e alla nostra età e smettiamola con il vittimismo a priori.
La crisi economica occidentale, preconizzata dai movimenti degli anni settanta, ha trovato il nostro paese completamente impreparato. Ammettiamolo senza pudore: dagli anni ottanta fino a metà dei novanta eravamo tutti convinti di diventare sempre più ricchi e abbiamo contratto debiti e assicurazioni e acquistato macchine e case e abbiamo speculato su tutto e tutti.
I disastri provocati da queste gestioni corrotte stanno venendo drammaticamente a galla, come leggiamo sulla cronaca dei quotidiani.
In tutto questo putridume, quando è arrivata la crisi vera, sono rimasti a galleggiare solo in pochi, sempre i soliti; mentre chi un tempo riusciva a sopravvivere ricorrendo a qualche prestito, è finito in mezzo ai guai, sommerso dai debiti e con lavori più o meno precari e sottopagati, che messi insieme fanno, nella migliore delle ipotesi, uno stipendio che non garantisce neppure la sopravvivenza mensile.
Chi si trova (e sono tanti) nella condizione di non aver nessun modo per essere competitivo, o meglio, sfruttato come forza lavoro e mal pagato: cioè se si è vecchi, malati, disabili, si è considerati inutili o ancor meglio un peso.
Queste categorie sono destinate a scomparire in un futuro non troppo prossimo per mancanza di cure e assistenza, dovuti ai tagli ai servizi sociali e alla sanità.
L’incapacità a gestire il problema dell’immigrazione, mascherata come buonismo fine a se stesso, ha sottaciuto una perversa volontà di ingrossare le fila di lavoratori disperati, disposti a tutto, che, come si è visto, nel giro di vent’anni, hanno consentito al potere economico di riappropriarsi di tutti quei diritti che i lavoratori avevano raggiunto a seguito di dure lotte sindacali.
Una pensione dignitosa, le cure ospedaliere e l’assistenza sociale erano diritti acquisiti.
Ormai è rimasto ben poco di quella società civile verso cui si tendeva negli anni sessanta/settanta, quella che credevamo illusoriamente di cambiare e che invece ci ha cambiato, senza che ce ne accorgessimo…
Ora non è inusuale sentire che una povera anziana o anziano malato, magari genitore di una figlia o figlio disabile, sono stati sfrattati e messi in strada con tutti i loro vecchi mobili per morosità, dovuta a una pensione sociale indecorosa.
Probabilmente quando ascoltiamo certe notizie, ci scandalizziamo, ma poi siamo presi dalla nostra quotidianità e ce ne dimentichiamo.
La poesia, che canta la vita di tutti i giorni e non solo i palpiti dell’anima, qui ci richiama a un tema che spesso vorremmo ignorare: la vecchiaia e la povertà, un binomio terribile.
Eppure, se ci dice bene, anche noi diventeremo vecchi, prima o poi. Mi chiedo: come faremo a sopravvivere quando il nostro fisico sarà stanco e non potrà più essere competitivo, se non con se stesso?
Quando i figli, soprattutto i migliori, se ne saranno andati tutti, perché non siamo stati in grado di garantire loro un futuro, per via del nostro pavido individualismo, per la nostra connivenza silenziosa con il marciume, cosa ne sarà della nostra nazione?
Dobbiamo decidere che cosa vogliamo per il nostro futuro.
Dobbiamo capire se vogliamo essere dei valori aggiunti, oppure dei pesi sociali, la cui prospettiva è diventare come la vecchia della poesia, che preferisce andare a fare un bagno, pur di non subire l’umiliazione della strada o peggio dell’ospizio, dove si finisce abbandonati in un letto fino al disfacimento della carne.
A fronte di tanto sfacelo che cosa facciamo oltre a piangerci addosso?
Aspettiamo che ci tolgano pure il respiro, per tornare a lottare come cittadini del mondo, per una giustizia giusta e una società a dimensione umana?