Dietro Van Gogh c’è il Giappone. C’è un ritratto, tutto verde, che lo mostra bene. Gli occhi intensi, fissi,leggermente a mandorla; il capo rasato come un monaco zen. È un altro Van Gogh, un secondo Van Gogh, complementare a quello del cappello di paglia e dell’orecchio tagliato, al pittore dei mangiatori di patate, gialli come fossero essi stessi patate, neri della fuliggine delle case olandesi. E in effetti si parte da qui, dal nero pece di queste bicocche tetre, dalla povertà di questi contadini devoti e chiusi.
Ama e non ama questa terra, il nostro pittore; parla di sé come di un’anfora rotta, si aggira inquieto per quelle campagne desolate. E quelle nuvole basse, quegli alberi disperati e muti gli lasceranno un’irrequietezza esistenziale che lo accompagnerà a tratti per tutta la vita, come se la sua mente non fosse che un insieme di cocci da rimettere assieme, da incollare pezzo per pezzo, a volte con la religione, a volte con l’arte.

Poi, 1887: Parigi. Parigi è un sipario che si apre improvviso e offusca questo mondo: a Parigi ci sono gli impressionisti, ci sono Seurat e Toulouse Lautrec, e ci sono le stampe del Giappone. Non che l’oriente fosse sconosciuto, ma era intravisto attraverso i moli d’Anversa, attraverso i cinesi dal «fare di cimice» e i tramonti. Ma a Parigi Van Gogh scopre una vitalità culturale imprevista, che gli fornisce mille spunti, dal divisionismo all’amore impressionista per la luce, fino, appunto, a queste magnifiche stampe giapponesi.
La straordinaria capacità di impaginazione, questo sguardo pulito, terso, è ciò che colpisce gli occidentali, i pittori, tutti i pittori, da Monet a Whistler: si tratta di una mania, di una moda che affascinerà la borghesia parigina per molto tempo; le locandine del Moulin Rouge di Toulouse Lautrec, ad esempio, sarebbero impensabili senza queste stampe.

Ma spesso le contaminazioni orientali si limitano ad una semplice imitazione di particolari soluzioni estetiche, come ad esempio la scelta di un punto di vista leggermente dall’alto e della scelta di vedute panoramiche molto ampie (con il conseguente abbandono della prospettiva scientifica) e raramente si spingono oltre. Si tratta perlopiù di copie, di un’ispirazione puramente formale. Anche Van Gogh proverà qualche esperimento di questo genere, creando copie quasi perfette. Sono celeberrimi i dipinti che scaturiscono da questa stagione; ad esempio vediamo Il ponte sotto la pioggia, preso a prestito da Hiroshige, come vediamo nell’immagine qui in basso.
Entrambi sono dipinti clamorosi: compendiario e austero il primo, tormentato e dinamico il secondo. Eppure (come accenna qui nel movimento della pioggia, diverso dalla staticità nipponica) la ripresa fedele non basta: è una suggestione troppo forte quella che lo pervade, bisogna mutare la tela, schiarirla, portare colori nuovi, abbandonare quel modo terrigno di dipingere, abbandonare del tutto la terra nera e il lume della lampada dei mangiatori di patate. E a Parigi, in quel 1887, c’è la luce del sole, ed è molto più intensa e bella, c’è il divisionismo di Seurat e e quei colori che sputano fuori tutta la sua fame di vita.

Questi sono gli ingredienti che Van Gogh sugge per operare una rivoluzione interna, affiancandoli a quel gusto per l’impaginazione di ampio respiro tutto nipponico, alla nitidezza di queste stampe, bidimensionali e proprio per questo grandiose, dotate di una prospettiva straniante, che coglie il senso d’insieme del soggetto e al contempo il dettaglio.
In questi anni il nostro pittore ricrea e modula un’intera grammatica basata sul modo giapponese di intendere il disegno, di organizzarlo; la predominanza della linea che definisce e incornicia la figura, l’attenzione al dettaglio, al primo piano, quasi fotografica, saranno il paradigma di moltissime sue composizioni successive. Il Giappone diventa simbolo di una terra dove uomo e natura si intersecano, si incontrano: a guidare la sua mano è la serenità che pervade queste vedute, queste nature morte, questi profili di donna leggiadri. E lo porterà in un nuovo Giappone, un «Giappone di Francia», la Provenza.

Siamo nell’inverno del 1888 e il nostro amico arriva ad Arles. È quanto di più vicino al Giappone si può permettere: il sole, la bellezza dei paesaggi, la tranquillità della gente sono per lui paragonabili al paese del Sol Levante. Non sarà dello stesso avviso Gauguin, che si trasferirà da lui per un periodo, per poi scappare a gambe levate (dal paese e dal pittore).
Reduce da due mostre di arte giapponese totalmente fallimentari, Van Gogh non demorde: prega il fratello di mantenere a Parigi i contatti col mercante d’arte Siegfried Bing, la sua principale fonte di stampe orientali: «Ho più perduto che guadagnato, e va bene, ma intanto ho avuto la possibilità di vedere molte giapponeserie (…) tutto il mio lavoro si basa sulla giapponeseria». Infatti da più di un anno Van Gogh copiava, disfaceva, analizzava e rifaceva dipinti su dipinti.
Già con queste opere si vede come si stia distaccando dal d’après, dalla copia: c’è la somiglianza del soggetto, c’è la capacità di organizzarlo lungo tutta la superficie della tela, quasi che ne strabordi; c’è una particolare prospettiva, quasi grandangolare, come vediamo in Peonie e farfalla di Hokusai:

Van Gogh, partendo da questi elementi, opera una traduzione fedele ma autonoma: la linea netta e precisa della stampa diventa una pennellata spessa, lunga, spesso svirgolata; il colore, chiaro e netto, diventa intenso, acceso, materico. Tutta l’opera parte dalla staticità, dalla tranquillità eterna del pittore giapponese e giunge invece al dinamismo, in una ricerca tormentata. Ma anche una ansiosa ricerca di vita. In tutte queste opere traspare violenta la necessità di esprimere la materia, di tirarla fuori dal quadro, di rendere tangibile il soggetto, perché vitale. Ecco che il Sol Levante è diventato un’ossessione, una felice ossessione, un’utopia. Per capire più da vicino cosa significhi, possiamo ricorrere direttamente alle sue parole, in uno dei passi più belli delle lettere al fratello:
«Studiando l’arte giapponese, si vede un uomo indiscutibilmente saggio, filosofo e intelligente, che passa il suo tempo a far che? A studiare la distanza fra la terra e la luna? No; a studiare la politica di Bismarck? No; a studiare un unico filo d’erba. Ma quest’unico filo d’erba lo conduce a disegnare tutte le piante, e poi le stagioni, e le grandi vie del paesaggio, e infine gli animali, e poi la figura umana. Così passa la sua vita e la sua vita è troppo breve per arrivare a tutto. Ma insomma, non è quasi una vera e propria religione quella che ci insegnano questi giapponesi così semplici, e che vivono in mezzo alla natura come fossero essi stessi dei fiori? E non è possibile studiare l’arte giapponese, credo, senza diventare molto più gai e felici, e senza tornare alla nostra natura nonostante la nostra educazione e il nostro lavoro nel mondo della convenzione».
(G. Mori, Impressionismo, Van Gogh e il Giappone, Giunti Editore, 1999)

In queste righe c’è il senso dello zen, di una parte della cultura giapponese. C’è del vero in ciò che vede della Provenza, in ciò che sa del Giappone, ma è una verità marginale. Marginale perché il Giappone e l’arte di Hokusai e Hiroshige sono anche molto altro; marginale perché gli artisti dell’Ukiyo-e, come viene chiamato il loro stile, in realtà avevano poco a che fare con lo zen, anche se le loro opere sono pregne di quel sostrato culturale.
Marginale perché, in fondo, poco importa se davvero esiste, questo Giappone. Quello che conta è il continuo confronto tra ciò che vede nelle stampe e ciò che vede nel reale, e le mille suggestioni che questo provoca. Si tratta di abbagli?
Fosse stato un Bismarck, sì. Ma l’arte vive di abbagli, trasfigurazioni, mezze menzogne per far scaturire una più grande verità. Non contava che esistesse davvero quella chimera: l’importante era che lui la vedesse, che per lui fosse lì, lì a due passi, un sogno, un sogno di un modo di vivere che rendesse migliori tutti, che facesse progredire gli uomini e li aprisse maggiormente verso il sentimento. È così che ci ha regalato tele come i rami di mandorlo in fiore, come i suoi campi di ulivi, virenti, danzanti, incredibilmente vivi.
È la comunanza dell’uomo con la natura quella che cerca, è il modo di rimettere assieme i cocci della propria esistenza, in una strenua volontà di vivere. E anche se un giorno tutto si spegnerà in quei campi di grano, nel volteggiare dei corvi bassi che preludono la tempesta, questo sogno ancora rimane, e vive nella sua arte.
In copertina: Vincent Van Gogh, Salici al tramonto, 1888