Stasera facciamo la rivoluzione

tonight we riot

Vi va un po’ di rivoluzione stasera? Prendiamo il joypad.

Tonight We Riot è un videogioco involontariamente pubblicato nel momento migliore: l’8 maggio, poche settimane prima delle rivolte negli USA. Viene presentato così: “In una distopia dove ricchi capitalisti controllano le elezioni, i media e le vite della classe operaia, siamo di fronte a due scelte: accettarlo, o combattere per qualcosa di migliore”. Che sollievo non vivere in un mondo del genere, vero?

Tonight We Riot è interessante già per la storia della sua realizzazione. È stato creato infatti da Pixel Pushers Union 512, sviluppatore che, in un mondo dei videogiochi con enormi problemi di sfruttamento dei lavoratori, ha deciso di costituirsi come cooperativa. L’editore poi è Means Interactive, sezione creata ad hoc per il videogioco dal progetto Means.TV, primo servizio streaming al mondo completamente posseduto dai lavoratori.

Con questo background è ovvio che Tonight We Riot non sia un gioco che nasconde i suoi intenti politici (e a tal proposito car* gamers mettetevi il cuore in pace: ogni gioco è politico. Se non ve ne rendete conto, è solo perché vi va bene lo status quo). Rispetto ad altri titoli dichiaratamente di sinistra come il magnifico Disco Elisium o Democratic Socialism Simulator (altro titolo nato da un collettivo, quello dei programmatori milanesi di Molleindustria) che hanno un approccio testuale, Tonight We Riot ci trascina a combattere in piazza.

Più volte su La sepoltura è stato toccato il tema nella narrazione e della sua centralità nella costruzione dei nostri immaginari (mi cito da solo). Anche per questo mi concentrerò più sulle tematiche che sul gameplay (comunque: giocatelo, è una figata). La visione di questo videogioco nonostante il contesto, coff coff, distopico, è fortemente positiva: assieme, possiamo costruire un nuovo futuro. È qualcosa che stiamo vedendo in questi giorni con le rivolte nate dopo la morte di George Floyd (ci torno più avanti): uniti si può molto. Se la necessità di reinventare il futuro emerge sin dalle prime schermate attraverso la scritta «Per costruire una società migliore, dovete prima distruggere quella preesistente», l’importanza dell’azione collettiva è esplicitata dalla meccanica (e accentuata dalla modalità co-op).

È una mossa a mio avviso coraggiosa, perché il mondo videoludico è un regno di egocentrici protagonismi: il gamer medio si incazza se gli togli l’illusione di essere l’eroe della storia, vuoi offrendogli personaggi in cui “non riesce ad immedesimarsi” (com’è successo con Tell Me Why: perché è dura giocare il ruolo di un ragazzo trans, ma è assolutamente naturale riconoscersi in un cavallo con la testa di uomo), vuoi mettendo altri personaggi al centro della storia (com’è successo con l’MMO Guild Wars 2).

In Tonight We Riot le persone muoiono: è una rivoluzione, è un rischio concreto. Ciò che conta è il gruppo perché “Fintanto che uno di noi sopravvive, la Rivoluzione continuerà a vivere”. È una storia collettiva, fatta di donne e uomini di ogni etnia. In una società che ci ha scientemente atomizzati questo messaggio è magnifico: ci ricorda che possiamo essere parte di qualcosa di più grande di noi, riappropriarci dell’interesse comune. Questo viene reso benissimo quando finiamo un livello: raggiungiamo una bandierina come quella di Super Mario non per salvare Peach, ma per liberare ciò che noi abbiamo costruito. Lo ricordiamo anche al boss finale, quando ci chiede: «Ho lavorato a lungo per costruire questo impero, voi cosa avete fatto?». E noi rispondiamo:

“Tutto”

Tonight We Riot affronta anche altre tematiche palesandole su uno sfondo pieno di narrazione. Di per sé il gioco è semplice: la sua estetica retrò ci porta alle vecchie sale giochi e ad un gameplay basato su spostamenti e botte. Il dove è fondamentale: liberiamo città, liberiamo fabbriche, attraversiamo porti dove rifiuti tossici vengono caricati su navi fatiscenti. Il tema ambientale è presente anche in uno degli scenari emotivamente più impegnativi, quello boschivo.

Tonight we riot
«Grande ragazzi, sono pronto a dare la vita per rendere più forte il mercato! Chi è con me?!»

«Se fermate il disboscamento perderò il lavoro»: qui lo scontro non è più solo contro i poliziotti, ma anche contro i boscaioli. È un tema duro e tra l’altro centrale in uno dei romanzi più belli di questi ultimi anni, Il sussurro del mondo. Il gioco prende una posizione netta con una sola parola: boot lickers, ovvero, persone che leccano lo stivale del proprio oppressore invece di lottare per i problemi della propria comunità, un po’ come i gay di destra o Arcilesbica.

Altri dettagli riempiono la storia di significato: nel finale, a capitalista abbattuto, vediamo un gabbiano intrappolato nella plastica. Il primo boss ha mani robotiche in una posizione da saluto fascista. I giornali mistificano i fatti, i rari dialoghi centrano subito il punto (Perché non parliamo della LIBERTÀ di lavorare fino a quando morirai?). E poi c’è Loukanikos, il meraviglioso cane che ha accompagnato le rivolte in Grecia.

Non siamo però in un simulatore di passeggiate ma in un picchiaduro, siamo chiamati a fare la ribellione.

Il videogioco non nasconde la necessità della violenza fisica. La polizia in questo mondo “distopico” è funzionale alla protezione del capitale e non alla difesa e sicurezza dei cittadini. Il gioco lo mostra costantemente: mentre il cattivo si chiude nella Casa Bianca fugge così come gli altri piccoli capitalisti e uomini della finanza, la polizia difende loro e le loro proprietà contro i lavoratori. La sua violenza è fuori misura, ma i giornali attaccano sempre i rivoltosi.

Ci troviamo quindi con mattoni, molotov e qualche altro utile oggetto sbloccabile a lottare contro uomini armati fino ai denti, protetti da carrarmati. La sproporzione di forza è rappresentata senza remore: la tecnologia in Tonight We Riot è uno strumento di controllo e opposizione contro noi ribelli. Dovremo abbattere droni e robot giganti a mattonate, puntando solo sulla nostra unica forza già citata: il numero.

Tonight We Riot giornali
«Città in fiamme!» Nella didascalia della foto si legge: «Perché non si lasciano pacificamente menare?»

Questi sono temi che non riguardano solo il videogioco, ma anche il mondo che ci circonda in generale, e le rivolte negli USA in particolare. La critica all’uso della violenza proviene anche da persone che appoggiano i motivi delle manifestazioni di Black Lives Matter. Tonight We Riot ci ricorda che la non violenza è il lusso di chi ha già una voce che viene amplificata dai media.

Lo vediamo anche qui da noi: mentre ogni anno la rappresentazione dei Pride è minima (ah, un sassolino da togliermi: compagn* della comunità LGBTQIA*, Stonewall è stata una rivolta e senza i mattoni di Sylvia Rivera, Marsha P. Johnson e le altre persone, per lo più nere e latine, sareste ancora a nascondervi nei cessi dell’Autogrill) e quella dei migranti assente (lo sciopero dei braccianti organizzato da Aboubakar Soumahoro è passato in sordina nonostante sia stato pacifico: ci indigna sempre e solo il razzismo degli altri), un branco di fascistoidi arancioni in piazza a Milano ha riempito le conversazioni per giorni.

Abbiamo una definizione parziale e privilegiata di cosa sia la violenza: la associamo sempre a un comportamento fisico, ma la violenza può essere ancora peggiore quando non è esplicita e sistemica. Una delle definizioni più calzanti di violenza è «Azione volontaria, esercitata da un soggetto su un altro, in modo da determinarlo ad agire contro la sua volontà». È violenza approfittare del colore della mia pelle per pagarmi una miseria. È violenza silenziare la mia voce approfittando delle disparità di genere. È violenza obbligarmi a riconoscermi in un genere che per te è valido, ma che non è mio. È violenza non permettermi un’istruzione adeguata perché nato nel quartiere sbagliato.

È violenza non permettere ad ogni persona di avere la vita che le spetta.

Quando questa violenza viene vissuta quotidianamente, quando la tua voce viene costantemente soffocata, il mattone allora è una risposta e la polizia è solo la mano del tuo oppressore.

E visto che in questi giorni è di moda citarlo:

Martin Luther King
«La rivolta è il linguaggio degli inascoltati» – Martin Luther King

Tonight We Riot si conclude con una domanda: «Ma il resto del mondo permetterà a tutto questo di continuare?». Sta a noi decidere che risposta lanciare.

«Il fatto che nessun governo dell’occidente abbia condannato le violazioni dei diritti umani e la brutale repressione poliziesca negli Stati Uniti durante le #GeorgeFloydProtests significa chiaramente che, per l’occidente, i “diritti umani” sono un’arma imperialistica da usare soltanto contro il sud del mondo» – Aijt Singh

 

Marco Spelgatti
Marco Spelgatti

Molto weird, un po' queer, spesso disallineato. Per me la narrazione plasma la realtà, e quindi è sempre un atto politico. Anche per questo, dopo aver scritto un romanzo gotico e inseguito orrori e paure nei racconti, ora voglio condividere futuri migliori.