Perché in poesia si va a capo spesso?

La musicalità della poesia

La poesia è un oggetto inafferrabile. È un discorso, ma non come tutti gli altri: non si fa poesia per comunicare qualcosa, per veicolare un contenuto definito, per dare informazioni a qualcuno. L’Infinito, il Canzoniere del Petrarca, una poesia di Saba o di Amelia Rosselli non hanno un gran contenuto informativo. Anche le poesie più filosofiche, più complesse, non possono essere ridotte al loro mero contenuto: se fosse così una parafrasi, una qualsiasi spiegazione sarebbe bella e importante quanto la poesia stessa. Ma, ovviamente, non è vero: Goethe è infinitamente più bello di qualsiasi spiegazione su Goethe, così come l’essenza, la bellezza di un romanzo o di un film non possono essere racchiusi in una recensione.

Eppure la poesia è tutt’altro che priva di contenuto. Ma veicola questo contenuto unendo suono e  significato: è l’impasto delle parole, il loro suonare insieme, la perfezione che ne scaturisce a rendere una poesia indimenticabile. La poesia prende una periferia del discorso, il suono della parola, a cui non sempre facciamo caso, e ne fa il suo centro, la sua ragion d’essere.

Ma com’è fatta dunque una poesia?

Semplificando molto, possiamo dire che una poesia, (intesa come componimento poetico e non in senso lato, come potremmo dire: “la poesia di un film”) è un’opera linguistica scritta in versi. È la divisione tra verso prosa a farci capire se siamo di fronte davanti a una poesia oppure no. Esistono poi tutte le vie di mezzo, come le poesie in prosa, ma questa divisione, questa opposizione è fondamentale per comprendere la specificità, il senso del parlare poetico.

Si dice che si ha un verso quando in un discorso c’è un ritmo riconoscibile, e quando invece non c’è si ha una prosa. Ma è impreciso: il linguaggio ha sempre ritmo, in tutte le sue manifestazioni. Questo articolo ha un suo ritmo, una conversazione ha un suo ritmo, o persino un documento giuridico, una circolare. Dove sta la differenza? Nel fatto che il verso mostra sempre delle regolarità, dei pattern che ritornano e si succedono in modo riconoscibile: per esempio le rime, le sillabe, gli accenti.

Trieste Giuseppe Wulz
Giuseppe Wulz, Veduta di Trieste

Nella prosa, invece, questi pattern sono più mutevoli, più variegati. Versus, infatti, deriva da “vertere”, cioè tornare sempre su se stessi; prorsus, invece, significa “scorrere, procedere in avanti”, come il corso di un fiume.

La prosa di un romanzo può avere un andamento molto veloce, o molto lento; può essere più o meno strutturata, con richiami, ripetizioni, divisioni in blocchi che ricordino le strofe: è il caso, per esempio, dell’incipit del Mio Carso di Slataper:

Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C’era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro. Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D’inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m’infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.

Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l’italiano, ho scelto gli amici fra i giovani piú colti; ma presto devo tornare in patria perché qui sto molto male.

Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d’imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch’io confessi d’esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi.

Nonostante un ritmo, una cadenza riconoscibile, rimane prosa, sia perché inserita in un contesto più ampio, sia perché la struttura è aperta e suscettibile di variazioni. Non c’è un ordine interno necessario, inevitabile, in cui ogni elemento è legato indissolubilmente agli altri, e che rende ogni parola insostituibile. Siamo molto vicini, ma non c’è ancora un grado di strutturazione ritmica tale da determinare ogni singola parte del discorso, come avviene invece nella migliore poesia.

Leggiamo, per esempio, Barche amorrate, dai Canti Orfici di Dino Campana:

…………………………………….
Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l’onda che ammorza
Ne l’onda volubile smorza………
Ne l’ultimo schianto crudele……….
Le vele le vele le vele

Odilon Redon, la vela gialla, 1905
Odilon Redon, la vela gialla, 1905

È una poesia particolarissima, ma nella sua particolarità esprime estremamente bene la possibilità della poesia di farsi suono, musica. Parte con un silenzio, come se fosse uno spartito con una battuta vuota. È un frammento: qualcosa che si ritrova per caso, e che sembra quasi si sia fatto da solo. Non c’è un io che parla: non è un discorso. C’è un suono: «Le vele le vele le vele».

Proviamo a immaginare questo suono, a dirlo ad alta voce: «Le vele le vele le vele le vele le vele…». Nella ripetizione c’è qualcosa di magico e ammaliante. A un certo punto ci rendiamo conto che questo suono richiama il muoversi del vento, le folate ripetitive del vento. Nel secondo verso lo esplicita: «che schioccano e frustano al vento». E il vento cosa fa? Gonfia di vane sequele, di vani lamenti, quelle stesse vele. Le vele sono sia soggetto, sia complemento oggetto: c’è una circolarità assoluta. In questi quattro versi c’è un andamento progrediente (“le vele le vele le vele) poi smentito da un andamento recalcitrante, con «che schioccano e frustano», che, essendo parole sdrucciole, danno un senso opposto, di ripiegamento, come quando il vento si ritira. E di nuovo un proseguire in avanti, con il vento che gonfia le vele.

Questo avanzamento prosegue nella seconda parte: le vele tessono un lamento volubile, mutevole smorzato dalle onde. Sembrerebbe una situazione placida, in cui le vele vengono smosse dal vento e creano una nenia, triste magari, ma dolce. Invece Dino Campana inserisce parole come “ammorza” (cioè “spegne”) e “smorza” e poi un concetto nuovo: lo “schianto crudele”. E a questo punto la poesia prende tutt’altra strada, si carica d’inquietudine.

Cos’è questo schianto crudele? Non lo sappiamo. La poesia, invece di dare informazioni, spesso ce le toglie. E lavorando per sottrazione di informazioni, ci spinge a immaginare, a interrogarci, a cercare di capire. Il poeta gioca con la nostra immaginazione lasciandoci in sospeso, senza rivelare troppo. Non sappiamo se sia il vento, se siano le onde, se le barche si siano schiantate contro la riva o se siano state lasciate lì dai pescatori. Non sappiamo nulla, eppure l’immagine riverbera in noi grazie alle consonanti aspre usate dall’autore.

Dino Campana
Dino Campana

In pochissimi versi c’è un incredibile dinamismo: si parte con un acuto, con un suono alto e veloce: «le vele le vele le vele», per poi arrivare allo schianto crudele, cupo, grave, lento. E allora anche l’ultimo verso, apparentemente identico al primo, bisognerà leggerlo più lentamente, come se vi fossero delle virgole, o dei puntini di sospensione: «le vele, le vele, le vele…». Pause che non vengono inserite graficamente, è probabile, per rendere meglio la circolarità della poesia, da un lato, e per non rendere troppo didascalico il discorso, per lasciare una certa ambiguità interpretativa, una sospensione.

Ma ascoltandola interiormente, vocalizzandola, ci si rende conto di come siano diverse queste ultime vele dalle prime. Se le prime erano puro suono e fascinazione (anche con il punto esclamativo, nel quarto verso) le ultime sono cariche dell’inquietudine di questo schianto. Le vele, le vele, le vele. E ci rendiamo conto di quanto siano simili alla nostra vita. Anche noi, in un volgersi rapidissimo, volubile degli eventi. ci guardiamo indietro con l’angoscia di scorgere il nostro naufragio. Sarà stato un fallimento oppure no, la nostra vita? Ecco il motivo dell’ambiguità, della mancanza di informazioni di questa poesia: sono le stesse informazioni che mancano sempre a noi. Le vele, così fresche e baldanzose, ora sono percosse da un brivido, sono più cupe, più gravi, venate da una silenziosa domanda.

E ci possiamo rendere conto di tutto ciò solo leggendo ad alta voce, vocalizzando, interpretando questa poesia come fosse uno spartito. Possiamo discutere se leggerla più veloce o più piano, se prenderla più in alto o più in basso. Ma è molto chiauro che l’inizio è veloce e la fine è lenta. E non è per una regola metrica precisa e astraibile dal contesto. I versi sono tutti novenari: ma non c’è un novenario uguale all’altro. Anche quando gli accenti sono gli stessi, il contenuto della poesia ci induce a ripensarli in un altro modo.

Ecco allora che impariamo due cose: che il suono della poesia è fonte di significato ulteriore per la poesia, e che a sua volta questo suono è intrinsecamente legato al contenuto: nasce dal contenuto, e lo porta a un livello superiore di complessità. Non ci sono due livelli separati, il suono della poesia da un lato, la forma, e il contenuto dall’altro: sono un’unica cosa. Le rime, la scelta delle consonanti, la scelta del metro, non sono un bel modo di vestire un discorso, ma sono il modo per realizzarlo compiutamente.

 


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Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.