Correva l’anno di Nostro Signore 1550 quando avvenne, non di punto in bianco ma annunciata da precedenti di un certo rilievo[1], la pubblicazione di un’opera fondamentale per la storia dell’arte: Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue sino a’ tempi nostri di Giorgio Vasari.
La fama di quest’ultimo, pittore davvero prolifico richiesto nelle principali corti italiane dell’epoca[2], è legata sia agli Uffizi – commissionatigli da Cosimo I de Medici qualche anno dopo la prima edizione delle Vite – e, in particolare, all’opera letteraria nella quale racchiuse, a suo giudizio, tutto ciò che era degno di memoria da Cimabue in poi.
L’impostazione, lo dice il titolo stesso, è quella biografica: alla prima parte, completa di dediche e proemi seguono le biografie dei singoli artisti, divise per Età[3], la cui struttura narrativa segue sempre lo stesso schema: nascita, infanzia, scoperta del talento, catalogo delle opere, morte.
Lette tutte di seguito non sono certo quella che si può definire una lettura scorrevole. Restano comunque una fonte preziosa alla quale attingere sia per conoscere il carattere e le inclinazione dei singoli artisti (anche se di Vasari non ci si può fidare più di tanto…) sia per avere un catalogo di opere in parte scomparse e, se si ha fortuna, attribuirne alcune.
Tra i diversi artisti, alcuni sono annunciati da segni celesti (Raffaello, Michelangelo) mentre altri sono giudicati da Vasari «malinconici e strani».
In questi casi il fiorentino si sofferma su caratteri stravaganti, soggetti capricciosi non sempre visti di buon occhio. Un buon artista per essere definito tale deve saper stare in società, Diamine! E, ad esempio, Paolo Uccello si trascurava, fissato com’era nell’indagare nelle sue opere i problemi della prospettiva. O, ancora, Piero Di Cosimo, molto apprezzato in realtà dal nostro autore, ma inadatto a stare in società, poiché «era similmente tanto amico de la solitudine, che non aveva piacere se non quando pensoso da sé solo poteva andarsene fantasticando e fare i suoi castelli in aria»[4]
Insomma, Vasari ci lascia un catalogo di ritratti fortemente condizionato (e non poteva essere altrimenti) dalla morale e dai valori del suo tempo in cui, per un artista, assume particolare importanza l’emulazione di un buon esempio e il misurarsi con esso. Condanna invece del tutto l’invidia.
Ed è proprio dopo un breve prologo dedicato alle virtù e ai peccati che il nostro ci informa della terribile (terribile) vita di Andrea del Castagno.
Invero lo schema generale delle vite è qui, come in tutte le altre, seguito senza alcuna eccezione: Andrea ci viene presentato sin da subito come un bambino speciale, orfano di entrambi i genitori, che saltella e corre presso la località dalla quale prende il nome: Castagno del Mugello, nel contado fiorentino.
Lo sfondo è marcatamente bucolico infarcito com’è di verzura e gregge di ovini pascolanti a destra e a manca. Adottato da uno zio fiorentino, il giovine mostra sul finire della tenera età le sue doti di disegnatore: in un giorno di pioggia il giovinetto si imbatte in un tabernacolo al quale stava lavorando un pittore di quelle parti non particolarmente dotato. Rimasto folgorato e trovato un gessetto, comincia a dar di matto scarabocchiando mura a caso; gli abitanti del vicinato si rendono conto delle virtù di Andrea, lo apprezzano, lo esaltano e lo zio, coscienzioso, decide di chiuderlo in una bottega dove potrà farsi le ossa.
Fin qui tutto bene.
A Firenze Andrea cresce e diviene un pittore piuttosto apprezzato. Per quanto il Vasari non si mostri neutro nel giudicare il pittore, additandolo più di una volta come una bestia, non tace e dunque riconosce il valore dei suoi affreschi e delle sue tavole.
Andrea è un asso nel disegno, nel rendere gli scorci prospettici. Purtroppo, invece, non riesce a colorire adeguatamente le sue opere risultando, invero, abbastanza grossolano. Il nostro autore non manca di darci un elenco delle sue opere giovanili e di informarci del suo caratteraccio: Andrea è facile all’ira, un simulatore e un invidioso. Una volta, preso in giro da un giovanotto, lo fece cadere giù dalle scale facendogli rompere quasi l’osso del collo!

Bene, Giorgio a metà della vita ci ha ricordato molte (troppe) volte con chi il vasto mondo dei committenti fiorentini aveva a che fare. Il piatto succulento arriva però quando, durante l’ennesimo lavoro di Andrea, il nostro pittore incontra uno straniero, cioè Domenico Veneziano.
Vasari non conosce molto bene i pittori stranieri (e con stranieri intendo tutti i non fiorentini): di Domenico Veneziano dice pochissimo, giusto che i committenti, i Portinari, l’hanno voluto perché, in quanto veneziano, era ritenuto essere un maestro nell’arte del colorire. I due pittori, lavorando insieme, si sarebbero potuti aiutare e migliorare a vicenda.
Immaginate dunque la reazione di Andrea, invidioso e arrogante, nel momento in cui gli viene affiancato un pittore capacissimo in quel suo unico tallone d’Achille! Da andar fuori di matto!
Andrea però, simulatore di professione e uomo di compagnia (beveva molto a quanto ci è dato sapere), adesca l’ingenuo veneziano e gli diviene amico.
Il genio letterario di Vasari qui è evidente: in un climax ascendente ci racconta aneddoti di questa falsa amicizia, tutti sofisticate anticipazioni di quello che sarà il tragico finale
All’ennesima presunta offesa subita, Andrea mette in atto il suo proposito – covato in realtà da molto tempo:
Per il che Domenico subito partito, et a’ suoi piaceri usati per la città camminando, Andrea sconosciuto nel suo ritorno si mise ad aspettarlo dietro a un canto, e con certi piombi il liuto e lo stomaco a un tempo gli sfondò, e con essi anco di mala su la testa il percosse, e non finito di morire, fuggendosi in terra lo lasciò; et a Santa Maria Nova alla sua stanza tornato, si rimase con l’uscio socchiuso intorno al disegno che avea lasciato. […] Laonde corso a ‘l rumore con spavento terribile gridando tuttavia «Fratel mio» e piantolo assai, poco gli andò che Domenico gli spirò nelle braccia[5].

La scena, dal sapore letterario, quasi di maniera è una conferma di tutto quello che l’autore ci ha detto prima: Andrea pugnala allo stomaco un uomo che lo considerava amico e, proprio perché la vita è ingiusta e i mostri riescono sempre a farla franca, non viene scoperto.
Tutto per invidia, sottolinea ancora il Vasari.
Non solo Andrea riesce a farla franca, assurge pure a nuova fama negli ultimi anni della sua esistenza. Confesserà l’assassinio, l’atto tremebondo solo poco prima di spirare. La condanna del nostro autore nei suoi confronti è definitiva.
Ebbene signori miei, scusate il linguaggio molto colorito, ma quella che avete letto è… una minchiata stellare[6].
Vasari, infatti, ci racconta di un assassinio che non è mai avvenuto, un atto partorito integralmente dalla sua mente di prolifico scrittore.
In realtà il povero Domenico Veneziano morì addirittura dopo Andrea del Castagno, nel 1461, e non per mano di qualcuno ma solo perché gli uomini di ogni tempo per un motivo o per un altro muoiono.
Il falso assassino, invece, morì di peste dopo atroci sofferenze (immaginiamo).
La loro vita si svolge circa un secolo prima rispetto all’opera del Vasari. Come mai l’autore fiorentino raccontò un episodio del genere? Perché?
Al momento attuale restano molti dubbi.
Testimonianze precedenti al Vasari non fanno alcun riferimento a questo episodio, quindi non si capisce bene da dove potesse averlo tirato fuori. Se l’è inventato di sana pianta? Oppure ha tratto ispirazione da dicerie che circolavano tra la gente, e che non sono mai state scritte?
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In copertina: Andrea del Castagno, Assunzione della Vergine tra i santi Miniato e Giuliano