Parliamo di palme.
Ancora?
No, dai le palme no.
E poi sono bruciate, chissenefrega.
Dai su, chissenefrega.
Beh, intanto ne è stata bruciata solo una. E poi, su questa storia delle palme rachitiche gentilmente offerte da Starbuck’s per adornare piazza Duomo a Milano ci sono alcune cose da dire.
Al netto delle dei commenti francamente discutibili e strumentalizzanti sulla presunta “africanizzazione” di Milano, su cui non mi soffermo nemmeno, mi vengono in mente alcune osservazioni:
1) Giusto giusto a settembre stavo pensando: «Ma guarda che belli questi alberi in piazza Duomo».
2) Le palme con il Duomo sono interessanti ma un po’ kitsch. Più o meno come il cioccolato fondente sui maccheroni.
3) Anche ammettendo che le palme si sposino bene con il contesto della piazza (non sono una novità, c’erano anche nell’800), quelle palme, piccole, storte, rattrappite, con le foglie legate insieme perché non si spampanino ai quattro venti, messe in fondo alla piazza come se fossero in castigo sono di una tristezza infinita.

E con questo si potrebbe anche chiudere la questione. Poi, de gustibus non disputandum est, per carità. E lo dice uno che una volta si è mangiato una piadina con dentro riso bianco e pesto alla genovese, e l’ha pure apprezzata. Però c’è dell’altro.
Solo che è tremendamente difficile parlarne. I pensieri si affollano in disordine, sembrano tanti piccioni su un pezzo di pane.
…ok, sì, ci siamo. La prendo un po’ alla lontana, abbiate pazienza.
Da un po’ di tempo mi chiedo quanti siano gli appassionati, o anche gli esperti di letteratura, che effettivamente sanno com’era fatta, urbanisticamente parlando, la Firenze di Dante. O le vie calpestate da Verdi, da Manzoni. O i paesaggi che ammirava Beethoven.
Studiamo con perizia la grafia di uno scrittore, i suoi spostamenti, le sue lettere; sappiamo tutto della vita e della morte di Montale, di Baudelaire; di Rimbaud sappiamo anche quanto aveva grande il… sì, proprio quello… ma poi non ci occupiamo per niente della «forma», per dirla con Pasolini, che avevano le città al loro tempo. Tutto quello che sappiamo, lo deduciamo dalle opere che studiamo; ma non abbiamo nessuna conoscenza urbanistica, se non superficiale. Ovviamente ci saranno anche cattedre specialistiche di Storia che si occupano di questo. Ma noi che ci occupiamo di letteratura, o di musica, non ne sappiamo quasi nulla. Chi studia arte sa qualcosa in più, ma siamo lontani dal prendere coscienza dell’intima unità dei due aspetti.
L’artista vive del mondo, oltre che nel mondo. I paesaggi, le case, la gente, i fiori, i fili d’erba che spaccano la crosta dell’asfalto sono parte di lui, e si riverberano nella sua arte. Il poeta si nutre delle architetture che gli stanno intorno, degli oggetti, di tutte le cose. Ha un rapporto fisico con il mondo, un rapporto che sentiamo solo attraverso l’arte, e che non posso esprimere se non scrivendo a mia volta una poesia o dipingendo un quadro.

Quando il cielo si frantuma in strie bianche e viola e gialle al tramonto, quando passa una metropolitana tuonando, o un merlo salta in mezzo al prato cercando il suo verme, il poeta annota e ingloba in se stesso. Chiude tutti questi movimenti, queste sensazioni, in uno spazio segreto nel suo cuore, e lo preserva fino al momento in cui scriverà qualcosa. Lo scrittore spia i dialoghi, osserva le persone, ma allo stesso modo è attento al risvolto di una giacca o ai tavolini di un bar in fondo al viale; o a un cartello solo nella strada.
Siamo incredibilmente antropocentrici. Crediamo che per fare un buon libro basti avere dei dialoghi brillanti. Che basti una certa conoscenza degli uomini e delle loro abitudini. E una storia interessante.
Poi capita, tornando a casa, la notte fonda, di vedere un gatto ritto nella strada vuota, come un dio tremendo. E ci capita qualcosa dentro. Passiamo per una via, e guardiamo i palazzi e ci fermiamo a guardare il ferro battuto dei balconi. O la vernice opaca di una parete nuda, alta, enorme. E ci piace quel vuoto, e quel ramo che si avvicina da un lato, e lancia la sua ombra sulla parete vuota. Che bello che quel vuoto non sia riempito da un cartellone, che rimanga lì, incompiuto.
Non ci pensiamo mai, al fatto che se abbiamo un Van Gogh, un Hemingway, uno Shakespeare, questo è dovuto anche a ciò che li circondava. Agli spazi che hanno percorso, alle strade che hanno visto, agli alberi che hanno conosciuto. E, soprattutto, non ci preoccupiamo mai di conservarlo, quel paesaggio.
Il design avrebbe dovuto abituarci al fatto che non esiste soluzione di continuità tra vita e arte. Che ogni oggetto, guardato in un certo modo, nasconde qualcosa di impressionante. Era questo ciò che Duchamp cercava di dirci con i suoi ready-made. E invece non abbiamo mai appreso veramente il messaggio: l’opera del designer non torna alla vita; rimane appannaggio di qualche estroso che può permettersela. E spesso ha una qualche valenza estetica per il puro fatto di essere estrosa, fuori del comune. Ma quante volte possiamo dire di trovare un’opera davvero di gusto? Anche quando qualche arredo urbano viene progettato da un designer, o un grattacielo da un architetto (o meglio archistar) queste opere sembrano fatte più per essere fotografate che per essere veramente vissute.
In una chiesa medievale ogni elemento era pensato in funzione del rapporto tra l’uomo e lo spazio; nulla era lasciato al caso: era veramente l’unione di funzionalità e percezione. E nello stesso tempo l’ambiente architettonico era concepito in relazione allo spazio circostante. Mentre più spesso vediamo opere magari interessanti, in sé, ma completamente avulse dal contesto.

E Milano ne sa qualcosa. Con le sue spalle larghe ha dovuto sopportare molto, dalla torre Velasca (con buona pace dei suoi estimatori) ai commenti di Lucio Fontana, che sosteneva che il Duomo fosse più bello impacchettato che al naturale, fino ai celeberrimi obbrobri bianchi dell’Expo-Gate.
Milano. Si potrebbero elencare per giorni bellezze e orrori. Porta Garibaldi è un concentrato di contraddizioni. Si passa dalla torre dell’Unicredit, che si fonde incredibilmente con l’ambiente, fino quasi ad inglobare delle case di ringhiera, creando un tutt’uno, al palazzo della Regione, che invece non ha niente di bello, è solo grosso, e spunta solitario in un paesaggio urbanisticamente non definito. E poi ancora l’auditorium con quelle linee morbide fascinose, e il nero della bellissima piazza Aalto. E intorno case anonime terrificanti. Ma forse la sintesi maggiore di questi continui contrasti la si può notare a S. Maria delle Grazie.
Infatti, finché ci passate di fianco, non notate nulla di strano. Guardate rapiti il ricamo bianco e rossiccio dei pennacchi della cupola, e una piazzetta che sa di fine ottocento e di distinti signori col cilindro. Decidete di entrarci. E l’interno vi rapisce come l’esterno. Ma, mi raccomando, quando uscite, state attenti, non guardate in alto, tenete gli occhi bassi sulla piazza: se li alzate, vedrete i tre grandi grattacieli di City life, e la graziosa piazzetta si tramuterà in uno scorcio da ipermoderna città asiatica.
Ed è forse per questo che sono qui a parlare di palme e di case e strade. Perché una città non è semplicemente lo spazio che sta tra la casa e l’ufficio. Una città sono le cose che hai fatto, le persone che hai visto, tutto quello che sei stato e che sei ancora adesso. In quella serata memorabile con gli amici, o quella volta che hai sbagliato metro e sei finito in mezzo ad un ballo di filippini sulla banchina, o quando sei uscito dall’università saltando per il 30 e lode che non avresti mai sperato, lei era lì. Ed era con te anche quella volta che ti sei innamorato di quella ragazza, ti ricordi? e l’hai accompagnata sotto il portone di casa… lei, la città, era sempre lì.
Non è necessario, come si può pensare, che le strade siano bellissime, i palazzi di lusso e che tutto sia perfetto e confezionato come una bomboniera. Nessuno chiede questo. A me, poi, le città modello, dove non c’è una carta per terra, dove tutto è carino e grazioso, mettono subito un senso di caramella gommosa in bocca. E una grande voglia di tornare a casa e abbracciare un cavalcavia.
È necessario, invece, che la città abbia un’anima. Che quella strada, quella scalinata, quella finestra ti dicano qualcosa. La città ti parla. Il mondo ti parla, se lo sai ascoltare. Ed è per questo che quando vedo cartelloni pubblicitari e cantieri ovunque, quando ho visto l’Expo-Gate, quando ho visto quelle palme, mi sono sentito violato dentro.
Si, lo so cosa si pensa in questi casi. Lo so, c’è la crisi, c’è la gente che chiede l’elemosina per strada e io sono qui a fare il radicalchic che si sente violato.
Ma, vedete…. come dire? Una città è come la persona che amiamo.
La guardi, la vedi, sei innamorato. Sei innamorato di quel movimento della mano, di quelle ciglia. Di quel modo che ha di girarsi e dirti qualcosa. E poi, non sai come, non sai perché, lei cambia, e non si gira più in quel modo, e non ti dice più quelle parole, e i movimenti delle mani diventano movimenti qualunque, non sono più i suoi. E allora tu ti chiedi dove sia andata. Non c’è. E tu la cerchi, lo cerchi, baciandola, baciandolo, guardandolo, lo cerchi in quegli occhi grandi. Ma quella persona non c’è più. È così anche con le città. Siamo innamorati di dettagli, di minuzie di cui nemmeno ci rendiamo nemmeno conto, e quando spariscono, allora ci accorgiamo che non amiamo più come prima. Che le vogliamo bene, ma non l’amiamo più. È quella minuzia che è scomparsa, per sempre.
Ed è per questo che parlo di violazione. È per questo che sento che mi hanno tolto qualcosa, in questi anni. Che mi hanno tolto qualcosa con Citylife; che mi hanno tolto qualcosa lasciando la darsena a se stessa per anni e poi mettendoci a fianco una struttura storta verde bottiglia; sono passati sui miei ricordi, li hanno cancellati senza chiedermi nulla.
E questa, sì, è una storia triste.
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