Spazio DiLà: una conversazione vagante (e divagante)

spaziodilà

Amici miei, oggi abbiamo una chicca.

Al posto del solito articolo incasinato, ostico alla comprensione e contenutisticamente randomico, oggi avremo un’intervista incasinata, ostica alla comprensione e contenutisticamente randomica.

Macro-topic sarà il teatro: e in particolare una specifica, vivace realtà milanese in continua affermazione.

Iniziamo, senza dare ciancio alla bande.

Che tanto ci sarà tempo poi.

Siamo qui coi nostri amici dello Spazio DiLà (via Arcivescovo Romilli 15: fermata Brenta della metro gialla), e con l’associazione culturale Granchio di recente gemellatasi con esso: chele, movimento orizzontale e tutto.

I nostri ospiti sono Delia Rimoldi e Claudio Gaj detto il Leone di Via Roggia Scagna: rispettivamente direttrice artistica e proprietaria dello Spazio[1] e direttore artistico della rassegna musicale ivi tenuta. Entrambi, a varie riprese, attori, drammaturghi e registi. Manca all’appello Jacopo Veronese, terzo “perno” della collaborazione.

Ciao Delia, ciao Claudio!

Delia: Ciao Davide!

Claudio: “Ruggito di saluto”

Davide: Per cominciare, vorrei chiedere a entrambi quale sia stata la vostra formazione, e come siate approdati al DiLà. Dove avete imparato a recitare, scrivere, dirigere, e come siete arrivati dove vi trovate ora?

Claudio Gaj, Spazio Dilà

Delia: Ho cominciato a recitare da piccola, e al liceo ho fatto qualche corso. Dopodiché ho fatto il provino al Teatro Carcano, e sono entrata. In seguito ho lavorato al Teatro della Quattordicesima, e al San Babila con Piero Mazzarella. Era un periodo in cui ci servivamo di scenografie monumentali, con case ricostruite per intero sul palco: con tanto di terrazzo. Erano teatri da 500 posti, del resto [paragonabili a due delle tre strutture del Piccolo Teatro].

Veniamo al DiLà: qui le dimensioni si sono un po’ ridotte. Questo posto l’abbiamo realizzato io e il mio fidanzato, Marco Ruggeri [nessuna parentela con Enrico]. Prima di diventare il nostro teatro, era un maxi magazzino. Il parquet l’ho messo io, i muri li ha fatti Marco. Abbiamo concepito insieme la questione degli spalti e degli altri spazi. Dopodiché abbiamo iniziato la stagione, collaborando con persone che poi hanno continuato altrove.

Claudio: Io ho iniziato frequentando l’accademia del Campo Teatrale, che all’epoca era in Viale Monza. Fatto quello, ho approfondito per un anno i miei studi al Teatro Ringhiera: frequentando il laboratorio di formazione permanente lì organizzato. Vista la mia passione per la musica, però, agli sforzi teatrali ho voluto accostare un diploma di pianoforte al conservatorio di Milano, e poi ho studiato composizione a Siena con Luis Bacalov [Oscar per la colonna sonora de Il postino di Michael Radford, 1994].

[Momento di costernazione dell’autore dell’articolo
nel realizzare che si parli di quel Bacalov:
il Bacalov dietro l’iconica opening song di Django e Django Unchained.
Seguono goffi, stonati e apertamente cacofonici tentativi dell’autore
di riprodurre il testo della canzone.
Now you’ve lost it forever, Django…]

Con lui ho studiato principalmente composizione di musiche per film,

[Prosecuzione più spasmodica dei goffi tentativi di prima]

imparando molto sul collegamento musica-parola che tuttora costituisce uno dei temi cardine del mio lavoro: quando una delle due può diventare l’altra, e viceversa.

Al DiLà sono giunto per vie traverse: il nostro incontro è dovuto a una conoscenza comune, che lavorava per Delia. Io ho cominciato a lavorare qui tre anni fa, e dalla seconda metà di quest’anno anche la stessa Granchio ha messo più salde radici allo Spazio. Il progetto che ci ha fatto conoscere è stato Mein Teil, un testo dedicato alla storia di Armin Meiwes, “il cannibale di Rotenburg”[2]: e le foto dello spettacolo puoi vederle qui, nell’atrio dello Spazio[3]. Prima di arrivare al cannibalismo, però abbiamo esordito con delle letture shakesperiane [alcune delle quali sono confluite nel più recente spettacolo dello Spazio, Shake Your Speare]. Inutile dire che ci siamo trovati molto rapidamente, la collaborazione ha funzionato da subito. E anche Mein Teil, ha funzionato: è uno spettacolo impegnativo, ma lavorarci è stato bellissimo. Insomma, è sotto le buone stelle di Shakespeare e di Meiwes che siamo stati accolti da zia Rimoldi.

dilà

[Commento sulle metafore familiari vigenti al DiLà,
che tendono a vedere Delia più nel ruolo della “mamma”

che in quello qui attribuitole di “zia”]

Davide: Beh, che dire… Wow. Il mio curriculum si limita, più o meno, al saper riprodurre il verso del criceto: e qualcuno sostiene sia più un delfino, tra l’altro. La sfacciataggine…

[Sproloquio sull’argomento di durata considerevole.

Escluso dal verbale]

Ragazzi, voi siete noti per le vostre produzioni dalle forti fondamenta drammaturgiche: tese a valorizzare il testo di riferimento in maniera originale, inusuale, e spesso e volentieri – se mi è permesso – più creativa di diversi prodotti mainstream. Di alcuni tra tali spettacoli, del resto, si è già parlato sia qui che su Birdmen Ditemi, chi c’è in particolare dietro a questi prodotti? Chi sono i punti fermi della vostra compagnia?

Delia: Beh, per iniziare ci siamo Jacopo, Claudio e io. E già non è male, no?

Claudio: “Assenso convinto”

Davide: Three’s a crowd…

Delia: A questo nucleo, di recente, abbiamo aggiunto Barbara Mattavelli [recentemente apparsa in Santa Estasi di Antonio Latella]; abbiamo poi rodato ulteriormente la collaborazione con Francesco Tornar [tra i protagonisti di diverse produzioni del DiLà, tra cui La cantautrice calva di Ionesco e La terra desolata di Eliot. Nella seconda, poi, ha anche rivestito il ruolo di co-regista]. Ci sono poi vari collaboratori occasionali, oltre a diverse “eminenze grigie” attive a livello di logistica, pubblicità e lavoro manuale.

Siamo dei singoli, ma siamo soprattutto una compagnia. E come compagnia, come insieme di singoli, Granchio fa tanto, lo fa in fretta, lo fa con impegno e lo fa con lealtà.

Il dramma sarebbe lavorare con persone che non hanno a cuore questo mestiere: mi è capitato, del resto. Ed è un dolore enorme – passami il termine – tutte le volte che succede. È una questione di amare quello che fai, di rispettarlo: e quindi di rispettare quello che fanno gli altri. Se non hai amore per questo mestiere, non lo fai. Smetti prima, o gli altri ti dicono di non farlo.

Davide: Amare quello che fai… Bellissimo. Ma ditemi: è sufficiente per diventare un attore, per diventare un bravo attore?

spazio dilà

Delia: Tutti possono diventare bravi attori, è soltanto una questione di studio, di pratica. C’è chi è più o meno portato, più o meno veloce ad apprendere (come a scuola, del resto), più o meno strutturato: e in quanto tale bisognoso di un apprendistato più accademico o, al contrario, più pratico.

Non c’è il talento innato in sé. Chiunque voglia diventare un bravo attore può farlo.

Claudio: Proprio così. Me lo diceva sempre la mia insegnante di teatro: non esiste il talento, esiste la velocità nel metabolizzare le cose. Ed esistono modi diversi di farlo.

Delia: E’ difficile, però. Quante persone, sul palcoscenico, sono disposte a non sentirsi necessariamente speciali, uniche, belle? A teatro devi essere in grado di imbruttirti, diventare pessimo, orrendo. L’abilità nel rendersi credibilmente brutti in scena è bellissima.

Per fare un Teatro fatto bene, bisogna calarsi le braghe – metaforicamente parlando. Devi esporti visceralmente al pubblico, devi esporti a tutto. Non puoi preoccuparti che ti si veda brutto.

Tutti possono diventare bravi attori,

è soltanto una questione di studio.

Davide: In Italia, l’ideale di teatro è quello di un evento sorbito nel più assoluto silenzio, intervallato solo da applausi che si vorrebbero il più sporadico e mirato possibile. Qual è il vostro rapporto col pubblico?

Delia: Il mio ideale di teatro è quello inglese, e in particolare il formato del Globe Theater. Io ho visto tanto teatro inglese contemporaneo. Il pubblico partecipa, si gusta lo spettacolo. Gli attori sembrano delle rockstar: ma il mio obiettivo è lungi dal diventare rockstar del pubblico. È una questione di partecipazione, di presenza. All’arrivare del cattivo sul palcoscenico del Globe, anche gli adulti urlano: fanno “Buuu!”. Il pubblico partecipa tantissimo. Qui ci si lamenta dei cellulari in sala!

Claudio: Qui gli attori rifiutano di rientrare in scena, per i cellulari in sala.

Delia: Rifiutano di entrare in scena! Uno nel pubblico ride, uno parla? Ma se Dio vuole! È una farsa l’idea italiana che il teatro vada ascoltato in totale silenzio, che non vada partecipato. E se tu, come attore, ascolti il cellulare che suona, significa che non sei sufficientemente concentrato. E se non lo sei tu, perché dovrebbe esserlo il pubblico? I biglietti costano tanto, e il pubblico non dovrebbe annoiarsi. E se si annoia, non è giusto non possa esprimerlo. Il nostro è un Paese in cui il teatro è un servizio pagato profumatamente: perché impedire al pubblico di recriminare, se il servizio non è di loro gradimento?

Non esiste il cattivo pubblico. Non esiste il pubblico distratto, non esiste il pubblico scialbo. Non esistono. Sei tu, la questione è tua. Esistono persone maleducate, ma in qualsiasi ambiente.

Claudio: Mica solo a teatro.

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Delia: Mica solo a teatro! In Quattordicesima la replica pomeridiana domenicale era piena di anziani, che si esprimevano ad alta voce commentando lo spettacolo: ed era meraviglioso. Era un segno della partecipazione del pubblico. Non puoi lamentartene. Il teatro va partecipato, non sorbito in sacrosanto silenzio. Quello che vogliamo qui è un pubblico partecipe.

Nove repliche a spettacolo, da trenta persone a volta, sono faticose. Un pubblico veramente partecipe contribuirebbe a rendere tutto più leggero, gratificante, bello.

A teatro devi essere in grado di imbruttirti,
diventare pessimo, orrendo.

L’abilità nel rendersi credibilmente brutti in scena è bellissima.

[L’intervista si fa più frenetica,
portando alla progressiva fusione delle voci in gioco.

Emergono i personaggi di Clelia, Gaudio, Cavide]

Cavide: Ditemi, qual è il vostro approccio al testo? Vi servite sempre di una drammaturgia preventiva, oppure vi capita di affidare lo sviluppo del testo ai risultati delle prove?

Clelia: Per quanto riguarda me, posso continuare a scrivere durante le prove, ma non faccio improvvisare gli attori. Assolutamente. Abituata, in compagnia stabile, a due settimane di prove, è in due settimane che andiamo in scena anche qui. Io ho già un’idea registica, un’idea scenografica: il progetto c’è, altrimenti non farei la regista. Il regista non dovrebbe derubarti, vampirizzarti: dovrebbe metterti nelle condizioni di poter splendere in scena.

Gaudio: Per me il concetto è abbastanza simile. La differenza di approccio è che, prima di pensare a qualunque regia, io adatto o scrivo il testo. Comincio sempre dalla drammaturgia e dalla musica, senza farmi idee registiche pregresse. A me è sempre interessata la commistione parola-musica, come farle concorrere insieme. Scrivo senza pensare a una regia. E, dopodiché, “Claudio drammaturgo” spedisce il testo a “Claudio regista”. E lì, rilettolo, “Claudio regista” decide che indicazioni dare agli attori, che tipo di personaggi sto cercando.

Galia: Claudio, quello si chiama “disturbo di personalità multipla”.

[Risate, rapido check psichiatrico
per controllare l’integrità mentale dei partecipanti.

Il risultato è segreto]

Clelio: Nella fase preliminare, in ogni caso, io tendenzialmente non penso agli attori. Non è un mio metodo caratteristico.

Non esiste il cattivo pubblico.
Non esiste il pubblico distratto, non esiste il pubblico scialbo.
Non esistono.

Sei tu.

spaziodilà

Dalia: Io invece sì, perché lavoro con loro. Conosco le caratteristiche e la versatilità di ognuno di loro, e scrivendo un testo e assegnando i personaggi so chi possa fare serenamente cosa, cosa sia nelle sue corde individuali. Non li metto in difficoltà. A parte Claudio.

Delio: Io sono il suo Johnny Depp [Colonna sonora di Pirati dei Caraibi nel background]. Nei suoi spettacoli mi sono trovato a fare cose diverse, senza fossilizzarmi in un ruolo specifico.

Claudia: Claudio poi, oltre a recitare e suonare, canta. E ha pure una bella voce. Ma non vuole cantare.

Dalio: Non canto nel rispetto di chi lo fa per lavoro. Loro, alla domanda “cosa fai?”, hanno il diritto di rispondere “canto”. Io no.

[La confusione delle parti viene dissipata:
se non altro per l’incapacità dell’autore

di trovare nuove combinazioni]

Davide: Ok, direi che potremmo gradualmente avviarci verso la conclusione. Facciamo qualche classificazione a caso:4 qual è il progetto che vi ha divertito di più? Il più difficile? Quello di maggior successo tra il pubblico?

Claudio: Il più divertente, per me, è stato Shake Your Speare.

Delia: Ha divertito molto anche me.

Claudio: È un tipo di teatro che mi diverte fare, che ci diverte fare.

Il più difficile, invece, è stato I racconti di Hoffmann: è uno spettacolo impegnativo, particolare.

Quello di maggior successo, forse, è constato del dittico Rosetta di Piazza Vetra e Raucherinnen (in Strapse), che insieme verranno ri-presentati nella prossima stagione.

Delia: D’accordissimo su Hoffman e su Rosetta/Raucherinnen. Per me il più divertente, invece… Shakespeare mi è piaciuto tanto, Canto di Natale mi ha divertito tantissimo, ma il più divertente per me è stato Fedra…

Davide: Ah, di Seneca?

Delia: No, di Claudio Gaj.

[Risate]

Tratto da Seneca, o meglio dall’Ippolito di Euripide. Il più divertente, e anche il più difficile. Sempre così, dal mio punto di vista. È uno spettacolo in cui il ruolo distruttivo della divinità greca sulle persone trova un paragone nella televisione real odierna, nei reality che controllano le masse. Nello spettacolo, Fedra è una tele-dipendente estremamente ingenua, assuefatta a talk show che avevano Medea e Giasone come ospiti continui. Divertentissimo: ma oggettivamente il più difficile di quell’anno.

Davide: Che dire, una splendida rassegna di titoli. Per me che devo recuperarne alcuni, e per gli eventuali lettori interessati, per dei prezzi accessibilissimi, a godersi degli splendidi spettacoli in quel di Milano.

Direi che possiamo chiudere qui – almeno sulla carta. Delia, Claudio, io vi ringrazio per la possibilità di questa ricca intervista technicolor.

Alla prossima!

Comunque Claudio, sei veramente tremendo. Ti sei rubato tutta la scena, e a Delia hai malapena lasciato la parola. Sei soddisfatto di te stesso?

Claudio: “Mortificazione”.

davide cioffrese
Davide Cioffrese

Eclettico nella mia conoscenza del nulla, narcisista nella misura in cui il mio ego non incontra quello degli altri, più sensibile agli attacchi emotivi di opere fittizie che a quelli del libro/film/ videogioco chiamato “vita” (aspetto alquanto allarmante). Tento di approcciarmi al mondo nella maniera più amichevole possibile, ma se di dovere (e, talvolta, a sproposito) non mi faccio scrupoli ad attaccarlo con eguale ferocia. Salvo poi, magari, sentirmi dispiaciuto al riguardo. Non aspettatevi che lo confessi, comunque. Jack of… some trades, master of none… in particular.