L’intento manifesto e poi dichiarato di Andrea Frediani nella stesura di questo suo ultimo romanzo, L’ultimo pretoriano, primo capitolo di una futura trilogia dall’altisonante titolo Roma caput mundi, edita dalla Newton Compton, è quello di avvincere e divertire (non per forza in quest’ordine) il lettore, di immergerlo negli intrighi che si consumarono, violenti, allo scadere del III secolo d. C. e durante il primo decennio del secolo successivo. Posso scrivere sin dall’inizio che il nostro autore riesce egregiamente nel suo intento, nonostante la presenza di qualche sbavatura in corso d’opera e un paio di ingenuità che rasentano il ridicolo ne incrinino il risultato finale.
Andrea Frediani conosce i ritmi narrativi, sa come incuriosire il lettore, come fomentare il suo interesse, riesce a mantenere una tensione costante all’interno del proprio romanzo, come nelle più classiche storie di avventura; mescola nel suo calderone violenza e sesso, ingenuità e scaltra furberia. In altre parole riesce ad essere perfettamente seriale, cinematografico, anzi forse ancora meglio, videoludico, in decine di passaggi[1].
Un romanzo che però si regge su queste premesse e usa determinati espedienti narrativi risulta incolore nel panorama contemporaneo, incorporeo e superficiale come moltissime opere alle quali, ormai, con mio sommo dispiacere, siamo abituati.

È vero, Frediani è pure capace di descrivere gli ambienti (non solo in senso fisico) in cui si muovono i personaggi, i suoi uomini d’arme, gli scenari ampi del vasto Impero in crisi; eppure i suoi protagonisti sono piatti, degli stereotipi che non escono mai dalla caratterizzazione (a tratti verrebbe da pensare caricaturale) con cui sono stati immaginati: ad esempio Minervina resta una donna debole, una bambina, nel corso di tutti gli avvenimenti, una bambina-dea del sesso[2] che, come effettivamente poteva-può essere, non è in grado di leggere e dunque adeguarsi al mondo in cui vive. Così ancora Costantino, uomo determinato, macho tutto d’un pezzo/tutto muscoli/tutto strategia che così è e così resta sin dalla sua prima apparizione fino alla fatale battaglia al Ponte Milvio.
Ok, cancelliamo dall’agenda un discorso più ampio relativo al romanzo storico e alla sua funzione e al suo contenuto: non è questa la sede adatta per affrontare un argomento così ampio e articolato[3]. Tentando poi di contestualizzare un minimo il romanzo di Frediani mi sono venuti in mente due opere di cui ultimamente ho letto parecchio[4]: il primo è I pilastri della Terra di Ken Follett, il secondo l’abusato Trono di Spade di G. R. R. Martin. Perché?
Perché Frediani scrive una storia di guerre e di successioni che, piatte, si possono equiparare alle opere su citate. Certo, sussistono enormi differenze tra queste: Follett, da americano, ci racconta una storia europea molto compromessa, a sua volta, dalla serialità americana (non a caso i suoi due romanzi di ambientazione medievale sono diventati delle serie tv negli ultimi anni), ma riesce a proporci, dopotutto, dei personaggi verosimili, degli uomini e delle donne che crescono e che risultano essere credibili nel contesto medievale inglese del XII secolo; ancora meglio Martin[5] i cui personaggi sono il punto forte dei suoi romanzi.
Così non fa il nostro autore, che non scruta solo che a pochi passi dalla superficie dell’animo umano, che non ci sorprende affatto con repentini aggiustamenti di traiettorie dei suoi uomini e delle sue due donne. D’altra parte devono uscire ancora il numero 2 e il numero 3, possiamo ancora sperare maggiore introspezione (non eccessivamente però, eh!).
Per concludere L’ultimo pretoriano resta dunque un romanzo di superficie, una storia che diverte (non troppo) e che scivola via ancor prima che finisca; ci sono innumerevoli, troppe battaglie, tutte uguali, scene di sesso che sì, sono condotte bene, ma che si sfilano a causa della pochezza dei sentimenti di lei o di lui. La nota storica più interessante resta quella dedicata al Cristianesimo, condotta, come gli altri argomenti, abbastanza superficialmente, ma decisamente intrigante, in particolar modo per i riflessi ideologici/teologici che ogni azione destina e comporta.
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