«Senza più indugiare ci alzammo tutti e Eumolpo, chiamato il suo servitore che si era messo a dormire, gli ordinò di uscire con i bagagli. Insieme a Gitone, riposi le nostre poche cose in una sacca e dopo aver rivolto una preghiera alle stelle salii sulla nave».
(Petronio, Satyricon, traduzione di Piero Chiara, Milano, Mondadori, 1969, p. 267)
Petronio, elegantiae arbiter, personaggio tratteggiato dallo storico Tacito all’interno dei suoi Annales (libro XVI) presenta non poche affinità con i temi e le singolari atmosfere presenti in un’opera molto stravagante del I (al massimo II) secolo d.C.: il Satyricon[1]. Non si ha alcuna certezza del legame che può intercorrere tra il personaggio di corte, suicida per intrighi di palazzo, e il romanzo che narra le avventure di Encolpio e dei suoi amanti; come realmente poco si conosce l’estensione originaria dell’opera e l’obbiettivo ultimo della stessa.
Il testo ci è giunto in frammenti: probabilmente, secondo quanto testimoniano i codici, il grande brano narrativo che possiamo leggere è costituito dai libri XIV, XV E XVI; un testo piuttosto lungo e poco conosciuto. In realtà alcuni elementi interni all’opera hanno consentito di collocare la sua stesura durante l’epoca neroniana, dunque tra il 54 e il 68 d.C. In effetti i vari episodi che costellano il racconto rimandano ad aspetti propri di quell’epoca: il potere sempre crescente dei liberti, la corruzione dei costumi romani, alcuni precisi rimandi alla corte e all’imperatore.
Encolpio, giovane di buona cultura, è in viaggio con i suoi amanti (il giovinetto Gitone e il più maturo Ascilto) senza una meta ben definita, sullo sfondo di una Graeca urbs meridionale dai tratti labirintici e piuttosto sommari. Coinvolto suo malgrado in una sarabanda di avventure indiavolate, totalmente parossistiche e ai limiti dell’assurdo, il nostro eroe incontra tantissimi personaggi, di varia e molto spesso bassa umanità, soggetti che di volta in volta gli rubano la scena, creando dei quadri isolati e indipendenti tenuti insieme solo dalla narrazione prepotentemente in prima persona del protagonista.

All’inizio del frammento il trio sfugge alle basse voglie della matrona Quartilla, finendo con il partecipare alla cena dell’opulento liberto Trimalcione[2] e, dopo un turbolento viaggio in mare conclusosi con un naufragio, giungere a Crotone, una città dal grande e glorioso passato ormai ridotta ad un tetro covo di briganti e ladri di dote.
Nel corso di queste avventure il personaggio di Ascilto è sostituito con quello del vecchio poeta epico Eumolpo, altro furfante, ennesimo antieroe di questa storia ricca di oscenità. Il tema del viaggio scorre tra le righe del racconto per tutte le avventure di Encolpio: novello Odisseo, al quale esplicitamente si richiama in più punti: «E poi ci si meraviglia che alla balia di Ulisse dopo vent’anni sia bastata una cicatrice per identificare l’ospite![3]», anima mitomane, «pronta a esaltarsi immedesimandosi negli eroi mitici celebrati nella grande letteratura del passato[4]», un pellegrino errante in costante ricerca di equilibrio, di un lieto fine sempre offuscato da nuove improbabili disgrazie. Un antieroe in trappola, quasi soffocato dalle molte situazioni stereotipate che lo circondano, mezzo con il quale l’autore ironizza sul genere del romanzo greco di epoca ellenistica.
Romanzo d’appendice ricco di avventure e di amori contrastati, vero antesignano di gran parte della narrativa commerciale moderna, ecco che dunque sia Encolpio che il viaggio da lui intrapreso diventano sottile critica, sotterranea eppure evidente polemica alla rigida ripetitività di espedienti narrativi e situazioni che discendono (probabilmente) dalla grande poesia Sublime di stampo omerico e tragico.
All’interno del racconto, per Encolpio e gli altri personaggi, il viaggio si veste di una carica simbolica inespressa e angosciante, fonte di mesta ambiguità. I personaggi del Satyricon, infatti, viaggiano non solo senza alcuna meta ma anche con discontinuità: quasi per caso si incrociano all’interno di una città senza nome, dalla quale fuggono perché assediati da problemi imminenti ed estemporanei (come la lite tra Ascilto ed Encolpio, cantata con accenti ridicolmente tragici) e, di nuovo per caso, giungono e poi si fermano a Crotone, con intenti tutt’altro che onesti.
Ancora non solo le avventure narrate, ma anche lo stile di Petronio gioca un ruolo fondamentale nel trasmettere ai lettori le insicurezze del viaggio, i continui cambi di rotta della brigata. Così ci troviamo al centro di una marea di luoghi, concreti eppure evanescenti, pronti a svanire una volta girato l’angolo.
Il viaggio quindi diviene simbolo della Vita: una realtà imprevedibile e senza alcuna certezza, un crogiolo di volti e sensazioni che non concede mai pace ai suoi attori, non un momento di riposo o di riflessione, non un attimo per conoscere meglio se stessi.
Una mirabile sintesi di questo fluire magmatico e a tratti sincopato, di questa fuga dall’essere che non concede requie, è costituita proprio dalla cena di Trimalcione dove tra le innumerevoli portate e i discorsi faceti si insinua la morte, o meglio la paura che i commensali provano per essa. Il loro viaggio, la loro vita, come i piatti che si susseguono sulla tavola del ricco liberto, sono saturi di piccolezze, di inganni volti a nascondere la terribilità della morte, dell’estremo assoluto verso il quale siamo diretti e al quale è destinato pure Encolpio che non conosce il perché del suo viaggiare, sommerso dalle sue paure e dalle sue passioni.
L’imprevedibilità del viaggio, la sua urgenza, consentono di portare con sé solo poche cose, il minimo per sopravvivere. Perseguitato (secondo alcuni dati che ci fornisce il testo) dal dio Priapo[5], Encolpio fugge senza fine, scivola da una realtà rocambolesca all’altra, sempre spaventato eppure cupido delle novità che il suo viaggio gli presenta.
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