Positivismo e Historismus: la rinascita della ragione

Karl Dilthey Positivismo e Historismus

Appunti di epistemologia – II

 

Bene signore e signori. Nell’ultimo articolo ci siamo lasciati all’ombra di una domanda: perché quella di Smith, nel controesempio di Gettier, non è una conoscenza? La risposta sembra ovvia. È intuitivo ritenere che una credenza falsa non possa essere considerata una conoscenza.

Ora, sorgono due domande piuttosto impegnative: cosa vuol dire qui “intuitivo”? e cosa significa “falso”?

Per rispondere a questi due interrogativi, conviene fare un passo indietro e immergerci nell’atmosfera culturale del primo dopoguerra. Un’atmosfera che è stata tratteggiata da Husserl, in un testo dal titolo di rara pregnanza, nella Crisi delle scienze europee.

Una precisazione. Con l’espressione “crisi delle scienze europee” Husserl intende “crisi della razionalità europea”.

A inizio secolo, la cieca fiducia – tutta occidentale – nelle possibilità di un pensiero razionale in grado di comprendere il mondo entra in una crisi talmente profonda da sembrare irreparabile. La fede in un progresso illimitato della civiltà, nelle magnifiche sorti e progressive dell’umana gente crolla sotto i colpi di maglio del primo conflitto mondiale. Stati e governi che sembravano eterni collassano sotto il peso di rivoluzioni sociali che fino a pochi anni prima sembravano non solo irrealizzabili, ma per i più addirittura impensabili. Traguardi teorici che sembravano indiscutibili vengono messi radicalmente (e per sempre) in dubbio. Persino gli attori principali di questi epocali mutamenti sembrano trascinati in una spirale di avvenimenti incontrollati e incontrollabili.

L’irrazionalismo galoppa e si moltiplicano concezioni del mondo che negano la possibilità di una comprensione razionale del reale. Ma come un’araba fenice la ragione tenta di risorgere dalle proprie ceneri, di ricostituire il campo in cui esercitare le sue legittime pretese.

Ritratto di Immanuel Kant
Ritratto di Immanuel Kant

Sarebbe troppo semplice fare parallelismi estrinseci tra epoche storiche che hanno molto poco in comune. Ma le riflessioni scientifiche, politiche, filosofiche di questi anni turbolenti di rivoluzioni assomigliano non poco a quelle che accompagnarono il periodo della Rivoluzione Francese. E non a caso un pensatore come Kant, che sembrava ormai uscito sconfitto nella lotta per l’egemonia filosofica, viene in questi anni riscoperto e diventa faro ispiratore per una rinascita della razionalità europea.

Tra le scienze – mettendo tra parentesi la rivoluzione einsteiniana (della quale non ho le conoscenze necessarie per poter scrivere) – sono quelle sull’uomo (storia, psicologia e sociologia) nelle quali assistiamo ad un vero e proprio sovvertimento della metodologia adottata fino a quel momento. Paladino del rinnovamento fu Max Weber, che tentò nelle sue riflessioni di superare contemporaneamente il positivismo comtiano e durkheimiano e l’Historismus[1].

Prima di addentrarci nelle pieghe della riflessione weberiana – cosa che faremo nel prossimo articolo – conviene tracciare un breve schizzo di queste due concezioni epistemologiche.

Da una parte il positivismo. Nato a inizio Ottocento con Comte, impernia la sua definizione di vero su un’idea molto diffusa: vero è ciò che rispecchia l’esistente. In sostanza: la frase “piove” è vera se fuori piove; se fuori c’è il sole “piove” è falso. Per verificare la verità o la falsità della frase “piove” l’unico modo è aprire la finestra e guardare di fuori.

Metafora a parte, secondo i positivisti il metodo scientifico doveva conformarsi a questo precetto fondamentale. Per costruire una teoria bisognava fare delle ipotesi, metterle alla prova con una serie di esperimenti e verificare se le ipotesi erano vere o false. Più verifiche si ottenevano, più un’ipotesi diveniva certezza, fino a che smetteva di essere un’ipotesi e poteva assurgere al rango di conoscenza[2].

Emile Durkheim
Emile Durkheim

La fisica sembrava la miglior candidata ad esemplificare questa concezione epistemologica. D’altronde, non era stato lo stesso Newton che aveva detto «Hypotheses non fingo»[3]? Ogni altra conoscenza (chimica, biologia, sociologia…) doveva allora sforzarsi di adottare la stessa metodologia. Émile Durkheim, con la sua indagine sul suicidio in Francia del 1897, è forse colui che meglio di chiunque altro si è sforzato di essere fedele a questi principi nell’indagine della società a lui contemporanea.

Dall’altra parte l’Historismus, concezione che oggi non riscuote grande successo (al punto che difficilmente trova spazio nei programmi di studio, persino all’Università) e che però ha un doppio indiscutibile merito. Intanto di impedire la diffusione del positivismo nell’ambiente filosofico tedesco della seconda metà dell’Ottocento. E in secondo luogo di dare il via a una serie di riflessioni, confluite in parte nelle filosofie novecentesche (soprattutto nell’ermeneutica di Heidegger, di Gadamer e di Ricoeur).

Ma cosa ci dice esattamente l’Historismus? Be’, innanzitutto ci dice che un conto è studiare la natura, un conto è studiare l’uomo. Detto così può sembrare una banalità, da applicare quasi a qualsiasi disciplina (la fisica non è la chimica, la storia non è la psicologia, la sociologia non è la storia…), ma per gli storicisti la questione si poneva in maniera radicale.

Natura ed essere umano sono due regni ontologici differenti. Nessun metodo può permettere di conoscere contemporaneamente entrambi. Due regni da esplorare, due strumenti di cui dotarsi, verrebbe da dire peccando di estrema sintesi.

Ora, mentre la natura è sottoposta alle leggi determinate di causa-effetto, il mondo dell’uomo è il mondo della libera possibilità, il mondo dello spirito. Mentre le prime si possono, anzi si devono scoprire attraverso l’esercizio dell’induzione e della generalizzazione, una scienza sull’uomo dev’essere fondata su un metodo d’indagine completamente diverso. Un metodo che Wilhelm Dilthey (cioè il fondatore dell’Historismus) chiama “immedesimazione[5] e che fonda le sue pretese sul fatto che, quando un essere umano studia l’uomo, di fatto sta studiando se stesso.

Gustav Droysen
Gustav Droysen

Diciamolo in altro modo. Se io studio com’è fatto un sasso oppure il sistema solare, sto studiando qualcosa di assolutamente diverso da me. Io non potrò mai essere quel sasso (o il sistema solare). Ma se io studio la storia, studio le gesta di questo o quel grande personaggio, non sto studiando qualcosa di diverso da me. Io sto studiando l’essere umano, di cui faccio parte, sto studiando anche me stesso.

Perché questo studio sia efficace non basterà formulare leggi generali di comportamento (come vorrebbero fare i positivisti), ma dovrò addentrarmi nelle pieghe della psicologia delle persone che agiscono. Dovrò comprendere (etimologicamente “prendere insieme”), le loro motivazioni, i loro desideri, i loro dubbi. Dovrò immedesimarmi, appunto, con loro.

Forse a questo punto qualcuno di voi sta pensando: «Be’… ma mica devo essere Tizio per sapere che cosa ha fatto!». Questo significa imboccare già la strada che porta al prossimo articolo: «Non bisogna essere Cesare per capire Cesare» sarà infatti l’obiezione che muoverà Weber all’Historismus quasi cinquant’anni dopo le prime riflessioni di Dilthey. Ma non anticipiamo troppo…

In questo movimento di avvicinamento all’oggetto di studio, lo studioso non si limita a descrivere un fatto. Piuttosto lo interpreta, cerca di coglierne i significati culturali, psicologici, “spirituali” per usare le parole dello stesso Dilthey. Nessi che rendono quell’evento un unicum, un irripetibile e perciò un fatto irriducibile a qualsiasi generalizzazione.

Ora, se nello studio della storia questo può essere accettato senza troppi problemi (in fondo chi penserebbe oggi di veder tornare un Cesare o un Napoleone?), l’indagine sociologica, avida com’è di forme di comprensione che diano conto del quadro d’insieme, si trova privata di uno strumento fondamentale: la possibilità di uscire dall’angusto ambito dell’evento, di dare conto delle tendenze di sviluppo generali.

È (anche) a partire da questo problema che emerge la riflessione di Weber, il suo tentativo di rifondare un sapere razionale sull’uomo. Ma di questo ne parleremo la prossima volta…

Simone Coletto
Simone Coletto

Nato a Milano, classe 1993, laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia; lettore e appassionato di politica da sempre, ho avvicinato gli studi filosofici sui banchi del liceo (classico) e da lì ho compreso come questa disciplina dia ad ognuno la possibilità di capire e modificare il mondo.