L’ingiusta ignominia di Ponzio Pilato

Ponzio Pilato

Tra i vari personaggi che compaiono nel suo capolavoro Il Maestro e Margherita, Michail Bulgakov conferisce un ruolo centrale ad un personaggio del tutto inaspettato: Ponzio Pilato, prefetto di Giudea sotto l’imperatore Tiberio. Addirittura, Pilato assurge a protagonista centrale del romanzo nel romanzo che si alterna al racconto della Mosca atea e disincantata, scritto dal Maestro eponimo; la sua importanza è tale che Bulgakov sceglie di concludere l’intera storia con la frase finale di questo pseudobiblium: «Il crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato».

La descrizione di Bulgakov suscita una certa curiosità, perché “crudele” non è certo l’attributo che più immediatamente viene associato a Pilato. Nondimeno, è un ritratto accurato e ben documentato: Pilato apparteneva effettivamente all’ordine equestre, donde il titolo di cavaliere, servì nel governo della Giudea – le stesse fonti antiche lo citano talvolta come prefetto, con compiti militari, talaltra come procuratore, con compiti fiscali – e fu il quinto funzionario incaricato di amministrare la regione. Sopratutto, Pilato era effettivamente crudele; Filone di Alessandria, uno dei più importanti intellettuali ebraici del I secolo dopo Cristo, ci fornisce un ritratto spietato di quest’uomo, da lui definito:

Un tiranno corrotto, avido e insensibile alle ragioni della giustizia. Orgoglio, prepotenza e insolenza erano la sua regola. […] Il paese sotto di lui fu lasciato al saccheggio e la gente veniva uccisa senza rispetto di alcuna legge[1].

Occorre sempre una grande prudenza nel riportare i giudizi degli autori antichi, specialmente quando, come in questo caso, le fonti sono poche e si occupano solo marginalmente dell’oggetto delle nostre ricerche. Sono stati necessari secoli perché la storiografia assumesse i valori e i requisiti di una disciplina scientifica, e molti degli autori più antichi, per quanto fondamentali e rigorosi, attribuivano un ruolo più ampio alla loro prospettiva rispetto alla mera registrazione dei fatti. Sovente i giudizi morali sui personaggi storici ed il loro operato tingono in maniera drastica il ritratto tramandato, costringendo così i posteri a scrutarlo in controluce per avvicinarsi all’originale.

Nel caso di Ponzio Pilato, tuttavia, assistiamo ad un’ulteriore sovrapposizione: non solo la figura dell’uomo storico è sfumata, ma pure la sua raffigurazione ha subìto una riscrittura. Nella cultura occidentale, infatti, non è certo la crudeltà ad ingiuriare la memoria del procuratore di Giudea, e le condanne tributategli dagli storiografi antichi lasciano straniti i lettori. Lungi dal dipingere un ritratto lusinghiero dell’uomo, l’immaginario comune tende invece ad accusarlo di mancanze di segno opposto, quali indecisione e codardia.

Crtsto davanti a Pilato
Jacek Malczewski, Cristo al cospetto di Pilato, 1910, olio su tela, National Art Gallery, Lviv. Il Pilato di Malczewski, visibilmente disinteressato e del tutto indifferente all’uomo sofferente al suo cospetto, sembra sposare appieno la fama di crudeltà a lui attribuita.

D’altronde, non è certo il suo operato ad aver tramandato la memoria di Ponzio Pilato, e non sono stati Filone, Tacito o Flavio Giuseppe a consegnare il suo nome alla conoscenza comune. Possiamo affermare con poco timore di smentita che Pilato sarebbe rimasto un personaggio minore, di quelli noti solo ai più versati specialisti dell’epoca, quasi una nota a piè di pagina nel grande libro della Storia, se durante il suo mandato non avesse incrociato un certo Yeshua ben Yosef, un giovane rabbi della città di Nazareth che raccolse un ampio seguito in Galilea e Giudea predicando la necessità di un rinnovamento spirituale e la prossimità del regno di Dio. Come andò a finire, è storia ben nota, e sarebbe superfluo rimarcarlo qui. Ciò che merita invece attenzione è come la vicenda storica del prefetto Pilato sia stata trasfigurata a partire dal suo ruolo nella Passione di Cristo, e come un intervento tanto limitato quanto essenziale abbia imposto un’immagine indelebile ad un personaggio altrimenti soprassedibile.

Del resto, la condanna di un sedizioso di non particolare rilievo in una provincia remota e arretrata come poteva essere la Giudea del I secolo non era, né per i contemporanei, né per gli storici pagani, un fatto che potesse attirare interesse. Solo il più puntiglioso dei cronachisti avrebbe ritenuto di dover registrare uno degli atti di usuale pertinenza di un governatore, e certo ai suoi occhi non vi sarebbe stato alcunché che distinguesse questo episodio dagli infiniti altri simili. Difatti, gli storici romani se ne occupano unicamente a posteriori, identificandolo solo come l’origine della setta dei cristiani che tanta agitazione causava nell’impero: la sentenza di Pilato viene menzionata di sfuggita, come una semplice puntualizzazione[2]. Sono invece i cristiani ad elaborare compiutamente la riflessione su quel frangente, sia nel presentare resoconti più ampi ed articolati sia nell’attribuire a quell’episodio una portata assai maggiore del semplice fatto storico.

La straordinaria fortuna che Ponzio Pilato ha goduto nel mondo cristiano diviene ancora più evidente quando si nota come egli sia l’unico uomo storico a venire citato nel credo[3], assieme alla Vergine Maria: benché il prefetto sia intervenuto solo alla fine della vicenda evangelica, la sua parte è stata a tal punto fondamentale da meritare di essere registrata assieme agli altri capisaldi della fede, un onore che non è toccato a nessuno dei compagni di Gesù né ad altri che pure avevano ricoperto un ruolo più consistente. L’unicità di tale menzione ci deve stornare il dubbio che sia servita unicamente per inquadrare i fatti nel loro tempo: proprio la sua presenza testimonia il suo valore e illumina l’importanza vitale di quell’atto, che altrimenti sarebbe passato sotto silenzio.

Se l’atto di Pilato viene riconosciuto per la sua fondamentale importanza solo nella cornice del cristianesimo, non deve stupire come la cultura cristiana lo abbia incorporato nel suo sapere diffuso. Ciò che invece causa perplessità è la valutazione sorprendentemente negativa ricevuta dal prefetto, e la trasfigurazione totale che il suo giudizio ha ricevuto, andando ben oltre la testimonianza delle Scritture. Nella cultura popolare, infatti, il nome di Pilato è divenuto sinonimo di codardia, e la lingua italiana ha visto sorgere addirittura l’aggettivo “pilatesco” per indicare l’astenersi dal prendere una decisione. Il procuratore Pilato ha subito per secoli non tanto lo stigma di ciò che ha fatto, ma di ciò che non ha fatto: il suo peccato e la sua colpa risiedono nell’inazione, al punto che più di un commentatore ha voluto vedere in lui l’autore del Gran Rifiuto dantesco; la sua condanna discende non dall’aver condannato a sua volta il Cristo, ma di averne permesso la morte senza opporsi alle calunnie del Sinedrio.

Tuttavia, questa nozione di Pilato ignavo e correo potrebbe essere tanto radicata quanto inesatta; benché una tradizione millenaria la abbia resa verità indiscussa per quanto riguarda la cultura popolare, probabilmente non era questa l’immagine che gli Evangelisti volevano tramandare. La necessità di scrutare i testi antichi in controluce nasconde infatti un’ulteriore ragione: quanto un autore ha affidato alla lettera del suo scritto è pur sempre determinato da un contesto circostante, che influenza in maniera più o meno sottile il passaggio dall’intento dell’autore a ciò che viene inteso dal ricevitore. A maggior ragione, un’accresciuta distanza temporale comporta il rischio di un travisamento, perché parte di quel contesto necessario alla comprensione può essersi modificata, o addirittura le parole stesse possono aver mutato il loro significato. Occorre dunque ritornare all’origine e assicurarsi di aver compreso quel contesto, per sincerarsi di non aver commesso un errore di prospettiva nel nostro giudizio.

Ponzio Pilato si lava le mani, luca giordano
Luca Giordano, Pilato si lava le mani, 1655-1660, olio su rame, Museo Nacional del Prado, Madrid, In ossequio ad un’iconografia diffusa, Giordano unifica in un solo momento dettagli distinti, quali Cristo coronato di spine, il suo incontro con Pilato e il lavaggio delle mani.

Il primo mito che dobbiamo sfatare è quello di un Pilato ignavo, che non prende parte all’azione e accetta passivamente la crocifissione. A nostro sostegno chiamiamo nientemeno che Dante Alighieri, lo stesso cui si imputa a torto di averne cristallizzato l’infamia. Il Sommo Poeta infatti non è stato soltanto uno dei più straordinari e originali autori della storia dell’Occidente, ma al contempo ha incorporato nella sua opera, come minuti particolari di un immenso affresco, numerose suggestioni letterarie, filosofiche e culturali tratte dalla società circostante, al punto che è lecito definire Dante una summa ed un compendio di tutto il sapere dell’Europa medievale.

L’autore del Gran Rifiuto viene lasciato anonimo, in parte perché al pubblico dell’epoca sarebbe risultata evidente l’identificazione con Celestino V e in parte per rafforzare l’idea che la vita degli ignavi, anonima e non vissuta, non lasci davvero alcuna traccia del loro passaggio terreno. Tuttavia, Pilato viene citato direttamente ed esplicitamente in un’altra opera, il trattato sulla Monarchia in cui Dante espone la propria dottrina sull’ordinamento politico. Questo passaggio ribalta nettamente l’immagine che noi abbiamo del prefetto romano:

Per convenienza bisogna sapere che “punizione” non è semplicemente “la pena di arrecare danno”, ma “la pena inflitta per arrecare danno da parte di chi ha la giurisdizione di punire”; di conseguenza, se la pena non è inflitta dal giudice costituito, non si tratta di “punizione”, ma va chiamata piuttosto “sopraffazione”. Ecco perché veniva chiesto a Mosè: “Chi ti ha costituito giudice sopra di noi?”

Dunque, se Cristo non avesse patito sotto il giudice costituito, quella pena non sarebbe stata una punizione. E il giudice costituito non avrebbe potuto essere [tale] se non avesse avuto giurisdizione sopra l’intero genere umano, poiché l’intero genere umano era punito nella carne stessa di Cristo che porta i nostri dolori, come dice il profeta. E Tiberio Cesare, il cui vicario era Pilato, non avrebbe avuto giurisdizione sopra l’intero genere umano, se l’impero romano non fosse stato legittimo.

Questa è la ragione per cui Erode, benché ignaro di ciò che faceva, e così pure Caifa quando disse la verità sul decreto celeste, rimandò Cristo a Pilato perché lo giudicasse, come riporta Luca nel suo vangelo. Erode infatti non faceva le veci di Tiberio sotto il segno dell’aquila o quello del senato, ma era stato nominato da lui re di uno specifico regno e governava nei limiti del regno che gli era stato affidato[4].

Nell’interpretazione di Dante, il ruolo di Pilato è cruciale: ben lungi dal concedere un mero ed inerte assenso, la stessa presenza del procuratore è il singolo elemento che conferisce legittimità alla condanna a morte di Cristo, e dunque diventa elemento fondante della salvezza. Non solo Pilato è l’unico a poter emettere una condanna capitale – poiché il potere romano aveva avocato a sé il monopolio sulla giustizia nelle province – senza la quale non potrebbe compiersi il sacrificio di Cristo, ma il suo titolo di rappresentante vicario del potere universale di Roma conferisce all’intero episodio quell’afflato universale necessario a liberare l’umanità dal peccato.

Perché il sacrificio sia compiuto, Gesù deve morire, deve morire in modo “lecito” e secondo la legge, e la sentenza deve provenire da un’autorità legittimamente costituita, che agisca senza malizia o perfidia e il cui potere sia universalmente valido – in altre parole, non solo l’impero romano è necessario per permettere la diffusione del cristianesimo, ma la sua stessa instaurazione non sarebbe stata possibile se non all’interno di quell’ordine del mondo creato da Roma.

Domenico Tintoretto, Cristo di fronte a Pilato
Domenico Robusti detto Domenico Tintoretto (attribuito), Cristo davanti a Pilato, circa 1580, olio su tela, Musei Civici di Belluno. Domenico Tintoretto, figlio del più noto Jacopo, continua l’uso di riunire più elementi in una singola scena, nonché di rappresentarla con costumi a lui contemporanei.

Come osservato più indietro, Dante arriva al termine e riassume un’intera stagione intellettuale e culturale. Possiamo dunque credere che nel Medioevo cristiano, quantomeno per la classe dirigente istruita, Ponzio Pilato fosse visto non come un pavido rimasto inerte, ma bensì come un ingranaggio necessario per la Passione, che ha adempiuto al suo ruolo nel grande piano della Provvidenza. Ma queste sottigliezze difficilmente potevano raggiungere gli strati più bassi della popolazione. È quindi nell’ambito popolare che si sviluppa l’immagine del procuratore imbelle e inattivo.

I quattro Vangeli canonici ci sottopongono differenti versioni del processo di Gesù, mettendo in luce aspetti diversi a seconda dell’intento dell’autore. Tra essi, la versione di Matteo è probabilmente quella che ci può portare più vicino alle origini di questo mito:

Gesù comparve davanti al governatore, e il governatore lo interrogò, dicendo: «Sei tu il re dei Giudei?» Gesù gli disse: «Tu lo dici». E, accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Allora Pilato gli disse: «Non senti quante cose testimoniano contro di te?» Ma egli non rispose neppure una parola; e il governatore se ne meravigliava molto.

Ogni festa di Pasqua il governatore era solito liberare un carcerato, quello che la folla voleva. Avevano allora un noto carcerato, di nome Barabba. Essendo dunque radunati, Pilato domandò loro: «Chi volete che vi liberi, Barabba o Gesù detto Cristo?» Perché egli sapeva che glielo avevano consegnato per invidia. […] Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a chiedere Barabba e a far morire Gesù . E il governatore si rivolse di nuovo a loro, dicendo: «Quale dei due volete che vi liberi?» E quelli dissero: «Barabba». E Pilato a loro: «Che farò dunque di Gesù detto Cristo?» Tutti risposero: «Sia crocifisso». Ma egli riprese: «Che male ha fatto?» Ma quelli sempre più gridavano: «Sia crocifisso!» Pilato, vedendo che non otteneva nulla, ma che si sollevava un tumulto, prese dell’acqua e si lavò le mani in presenza della folla, dicendo: «Io sono innocente del sangue di questo giusto: pensateci voi». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli».

Allora egli liberò loro Barabba; e dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso[5].

Guercino Ecce Homo
Giovan Francesco Barbieri, detto il Guercino, Ecce Homo, 1647, olio su tela, Bavarian State Collection, Palazzo Schleissheim, Monaco. Il titolo fa riferimento alla frase pronunciata da Pilato dopo aver mostrato alla folla Gesù flagellato, sperando di averne placato la sete di sangue. 

Il racconto di Matteo concorda con gli altri Evangelisti sulla struttura generale: Gesù non si difende, Pilato intuisce presto la sua innocenza, il popolo sceglie di liberare Barabba su istigazione del Sinedrio. Tuttavia, presenta alcuni particolari esclusivi, rivelatori di una prospettiva assai sorprendente. Il più evidente e conosciuto tra questi è il celebre episodio del lavaggio delle mani, così radicato nell’immaginario comune da aver generato un proverbio col significato, appunto, di abdicare ad una propria responsabilità. È questo il fatto chiave da cui discende la raffigurazione pavida ed inerte di Ponzio Pilato, ben diversa dal ritratto assai più volitivo che ne fa l’apostolo Giovanni.

Il Vangelo secondo Giovanni è il più autonomo dei quattro Vangeli Canonici, sia nel presentare episodi del tutto ignorati dai tre Sinottici sia nel descrivere i fatti condivisi con una nuova prospettiva. Se gli altri resoconti presentano un Gesù passivo, che non replica alle accuse rivoltegli, in Giovanni al contrario è lui a condurre il dialogo, con Pilato che interloquisce con viva curiosità, e lo incalza con domande più attente del semplice stupore. Alla fine, il procuratore è del tutto convinto dell’innocenza di quest’uomo, ed è costretto a condannarlo dalla minaccia dei capi dei sacerdoti: il Nazareno è accusato di incitare alla ribellione, quindi è un nemico di Cesare; e chi parteggia per lui è del pari nemico di Cesare. Pilato si ritrova dunque schiacciato da una superiore necessità, ed emana la condanna contro il proprio volere, assumendo quasi una connotazione tragica. Per contro, subito dopo egli trova l’occasione di riaffermare la propria autonomia:

Pilato fece pure un’iscrizione e la pose sulla croce. V’era scritto: GESÙ IL NAZARENO, IL RE DEI GIUDEI. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; e l’iscrizione era in ebraico, in latino e in greco. Perciò i capi dei sacerdoti dei Giudei dicevano a Pilato: «Non lasciare scritto: “Il re dei Giudei”; ma che egli ha detto: “Io sono il re dei Giudei”». Pilato rispose: «Quello che ho scritto, ho scritto»[6].

La scelta del prefetto di mantenere il punto sull’iscrizione sembra quasi un atto di rivalsa contro i sacerdoti: hanno avuto la loro condanna, ma Pilato non sarà loro complice nell’infamare quell’uomo. In qualche misura, questa fermezza posteriore va ad affievolire l’ombra di codardia che discendeva dalla sua decisione, e assieme sottolinea come gli ebrei abbiano chiesto la morte di chi loro stessi chiamavano re. È lampante come a questa versione si sia maggiormente ispirato Bulgakov, che costruisce il romanzo di Pilato sulla struttura di una tragedia greca e carica il procuratore del grande rimorso di non aver salvato quell’uomo innocente.

Ma torniamo al nostro Matteo, e al suo lavacro tanto conosciuto quanto infamante. Ormai ci è chiaro che la notorietà di questo episodio ci deve spingere ad indagare più approfonditamente, per svelare il significato nascosto nel contesto. Il gesto del lavarsi le mani infatti ha una fortissima valenza simbolica, ben nota sia al mondo giudaico sia al mondo classico, che tuttavia è stata dimenticata dalla modernità. Per i popoli arcaici, essere coinvolti a qualunque titolo in un fatto di sangue comportava una contaminazione, un’impurità che i Greci definivano míasma e che costringeva all’esclusione dal consesso civile, nel quale si poteva venire riammessi solo dopo una purificazione rituale. Questo bando non riguardava solo l’autore materiale del delitto: bastava entrare in contatto col sangue, o anche solo assistere al fatto, per venirne associati e contaminati. Gli stessi ebrei nella Legge di Mosè avevano stabilito pratiche di purificazione ed espiazione collettiva nel caso in cui si fosse rinvenuto un cadavere ucciso da ignoti[7], perché la morte violenta turba l’ordine naturale e provoca squilibrio per l’intera comunità.

Quasi tutti i rituali di purificazione prescrivono di lavarsi le mani con acqua pura, allo scopo di lavare materialmente e metaforicamente il sangue, la colpa o il marchio via dal proprio corpo e ritornare così ad uno stato di restaurato candore. Una tale prescrizione era ancora più importante nel caso in cui la vittima fosse stata innocente: uccidere nel mondo antico poteva essere consentito all’interno di alcune cornici specifiche, legittimanti e codificate – la battaglia, una condanna capitale dopo un processo, difendersi nell’emergenza – e nondimeno causava contaminazione; a maggior ragione, il sangue di un innocente sparso senza giustificazione, per caso o per malizia, veniva considerato ancora più maledetto e fautore di míasma per chiunque ne era coinvolto.

Peter Paul Rubens, Ecce Homo
Pieter Paul Rubens, Ecce Homo, 1612, olio su tavola, Hermitage, San Pietroburgo. Rifacendosi alla descrizione di Giovanni, Rubens restituisce tutti gli attributi della maestà di Cristo, mostrandolo composto e sereno di fronte al supplizio.

Quando Pilato si lava le mani, non sta rifiutando di assumersi una colpa. Al contrario, è ben consapevole di essere stato coinvolto contro la propria volontà in un atto di ingiustizia, e in quanto giudice che emette la sentenza il sangue di Gesù è sulle mani tanto sue quanto dei suoi accusatori. Appunto perché Pilato si rende conto di essere colpevole di associazione, egli cerca di espiare il suo gesto e tenta di purificarsi dal sangue innocente che lo contamina. La risposta degli ebrei, che invece assumono pienamente su di sé quella responsabilità e quel sangue, è quasi certamente figlia della propaganda antigiudaica che la Chiesa primitiva intessé per distinguersi dai propri progenitori, e difatti è stata utilizzata per i due millenni successivi come base per giustificare la persecuzione dei “perfidi Giudei”, popolo deicida.

Questo carattere fondamentale della religiosità antica è stato definitivamente soppiantato ed oscurato con l’avvento del cristianesimo. Nel momento in cui tutti i peccati e tutte le colpe sono espiati nel sacrificio di Cristo in croce, una purificazione rituale non è più necessaria. I rituali di rimozione della colpa sono stati sostituiti dalla confessione del peccato, pubblica o personale a seconda delle denominazioni. Difatti, non a caso il cristianesimo è l’unica delle tre religioni monoteistiche a non prevedere la necessità di compiere abluzioni rituali per poter presenziare al culto o compiere rituali: l’unica abluzione richiesta è il battesimo con il quale si è stati ammessi nella Chiesa di Cristo.

Ma nel momento in cui il contesto è mutato tanto radicalmente, il significato profondo dietro a questo simbolo è stato dimenticato e rimosso. Privato del suo senso recondito, il gesto di lavarsi le mani, unito all’assunzione di colpa che lo segue, ha assunto i caratteri a noi più familiari del rifiuto della responsabilità, dell’ignavia e del disinteresse. Da qui ha origine l’immeritata fama che da due millenni offusca la memoria del crudele quinto procuratore della Giudea, il cavaliere Ponzio Pilato.

 

In copertina: Antonio Ciseri, Ecce Homo, circa 1871, olio su tela, Pinacoteca di Palazzo Pitti, Firenze. La versione di Ciseri è una delle poche a raffigurare la scena con elementi appropriati all’epoca dei fatti.


Tutte le citazioni del testo biblico provengono dalla Nuova Riveduta, curata dalla Società Biblica di Ginevra.

Se l’articolo ti è piaciuto, leggi anche Al tempo degli dèi falsi e bugiardi. Tracce di monolatria nell’Antico Testamento.

Alessandro Sergio Martino Gentile, autore di Storie Sepolte
Alessandro Sergio Martino Gentile

Quando ero bambino, chiedevo che mi raccontassero delle storie. Mi affascinavano tutte, dai miti greci ai racconti dei cavalieri, dalle fiabe alle avventure di pirati. L'esito inevitabile era finire a studiare la Storia, con la s maiuscola, per tentare di capire da dove veniamo. Nel frattempo sono stato maestro di scuola e volontario del servizio civile, e collaboro dentro e fuori il palco del teatro con Associazione Studio Novecento. Amo il silenzio e la musica classica, la lettura e le camminate, la buona cucina di mano mia o altrui.