La peste nell’antichità: Tucidide, Lucrezio, Virgilio

Hans_Baldung la morte e la fanciulla

L’epidemia del Coronavirus sta facendo parlare di sé, come in passato Ebola, la Sars e le grandi epidemie degli ultimi anni. Anche il Coronavirus sta falcidiando un consistente numero di vittime, vittime ormai vicine ai nostri sguardi multimediali eppure percepite come lontane dal nostro occidente, preoccupato esclusivamente che l’epidemia non arrivi fino alle nostre case. Allo stesso tempo, l’epidemia non può non suscitare, in tutti noi, un folto numero di domande: cosa significa un’epidemia mondiale? Se toccasse noi, in prima persona? Se colpisse i nostri affetti? Come affronteremmo il Morbo? Che domande ci faremmo in proposito?

In questo episodio di Eremos Kora ritorniamo, ancora una volta, all’origine: Pericle e la Guerra del Peloponneso, soffermandoci su come in passato sono stati spiegati eventi simili, su come sono stati descritti gli effetti di alcuni morbi, sul valore che ad essi è stato conferito in una data cultura.

Lo storico del conflitto, il più volte citato Tucidide, ci ha lasciato uno dei più sorprendenti brani della storiografia greca (di cui per altro ci è pervenuto davvero poco) descrivendoci la tipologia del morbo, da noi identificato come Peste[1], i dolori che causa, l’arco di tempo in cui macera le sue vittime (come cadaveri bollenti lasciati sfrigolare al sole), la reazione a tale disastro, il prendere coscienza di essere infetti da parte dei malati, la baldanza e ottimistica sicurezza dei sopravvissuti. Indubbiamente un brano in cui Tucidide sottolinea la sua capacità di osservazione e analisi, partendo dagli aspetti materiali sino a tessere un quadro antropologico della realtà distrutta e sprofondata nel caos in cui versa Atene.

Evelyn de Morgan, L'angelo della morte,1881
Evelyn de Morgan, L’angelo della morte,1881

Ma è un’osservazione del nostro autore, la costatazione di un fatto curioso ad assumere per me significativa importanza:

E, come era naturale, in quella sventura si ricordarono anche di questo verso, che, secondo le parole dei più vecchi, era stato cantato una volta: «verrà la guerra dei Dori e la pestilenza con lei[2]». In quell’occasione la gente era in preda alla discordia, perché si sosteneva che in quel verso non era stato detto dagli antichi ”pestilenza”, ma “fame”; pure, data la sventura in cui si trovavano, ovviamente vinse l’opinione di quelli che pensavano che era stato detto “pestilenza”. Giacché gli uomini adattavano i ricordi ai mali sofferti[3].

L’oscuro male era stato profetizzato, diveniva punizione per una crudeltà perpetrata precedentemente dal popolo di Atene[4]. Ma è una forzatura, un’interpretazione atta a giustificare l’ingiustificabile, l’alterazione di un testo che diviene Storia. Perché per i greci il Passato ha fondamentale importanza, le parole degli Antichi hanno singolare importanza e vivono sempre nel Presente, in un continuum mai scisso, in eterno divenire, in una fitta rete di richiami. Tucidide ne prende atto, ci rivela il modo di pensare degli Ateniesi, ancora di più dell’uomo come essere vivente, analizzandone le sofferenze, richiamandoci la facilità con cui la verità storica (di una profezia in questo caso) può essere alterata e modificata secondo le circostanze.

Proprio questa capacità interpretativa, la facilità con la quale un evento può essere vestito di simboli e significati mi porta a Lucrezio[5], autore di epoca cesariana che, come il contemporaneo Catullo, propone una riflessione poetica e filosofica disgiunta dalle violenze della vita politica del suo tempo.

Il De rerum natura, unica opera di Lucrezio giuntaci per intero e nella quale l’autore espone i principi della filosofia epicurea (già citata diverse volte anche a proposito di Orazio) si conclude (quasi bruscamente) con la descrizione della Peste che sconvolse Atene nel 430 a.C.

La peste in una città antica
Michiel Sweerts, La peste in una città antica, 1652

Perché concludere un poema sulla razionale filosofia di Epicuro con la descrizione di un evento che mostra tutto il contrario? Lucrezio riprende la descrizione di Tucidide (non può fare altrimenti) sottolineandone la drammaticità, il caos e la sofferenza che investe l’uomo in tali circostanze. Lo stile è eminentemente drammatico e ricco, lontano dall’originale eppure non meno attento ai più infimi dettagli. In realtà la conclusione del poema lucreziano è ancora fonte di discussione: segno di incompiutezza o calibrato rovescio del brano iniziale del poema, il Canto di Venere?

Infine, la Morte. I nostri autori descrivono fiumane di cadaveri, lo storico con occhio scientifico, il poeta con una vibrazione patetica intensa ed esemplificatrice. Per i greci il valore della sepoltura, lo spargere la propria terra sul caro estinto è fondamentale: ce lo insegnano gli eroi omerici[6] e la grande eroina sofoclea, Antigone. Un destino di dannazione attende chi non è stato sepolto.

E l’Oltremondo? Come si costruisce agli occhi dei viventi?

Un attimo, una fugace visione si trova all’interno dell’Odissea, troppo breve per consentirci una piena immersione nell’Aldilà, pochi versi e pochi richiami ad un mondo che invece Virgilio ci racconta in circa 900 versi[7], soffermandosi sulle leggi e le divisioni che ivi imperano. Solo gli eroi, le anime ricche di valori e sagge potranno dimorare nei Campi Elisi, nelle lande smaltate di verde dove soffia il vento e dove la Morte assume connotati più tenui e smorzati ma non per questo meno drammatici.

La morte è per gli antichi ombra della vita, non esiste un destino di salvezza oltre il fatale attimo. Morire durante un epidemia, nel caos senza legge, nella natura degradata a sofferenza sorda, scardina i riti, soffoca le certezze che pure ricerchiamo oltre i nostri limiti, ci obbliga a confrontarci con gli Assoluti: la Morte, il Dolore, l’Amore (e tanti altri).

Ma come si presenterà la peste, la morte nei secoli successivi? Quali riflessioni susciterà negli animi dei poeti e nei cantori di altre età? Quanto sarà grande la rivoluzione del Cristianesimo? Quali tensioni susciterà allo scadere del Millennio?

Redazione: Salvatore Ciaccio
Salvatore Ciaccio

Nato a Sciacca in provincia di Agrigento nel 1993, ho frequentato il Liceo Classico nella mia città natale per poi proseguire gli studi a Pavia, dove mi sono laureato in Lettere Moderne con una tesi dedicata all'architettura normanna in Sicilia.