La vacuità nell’estetica orientale: amore per il vuoto

Michael Kenna, Torii, Visions of Japan

L’horror vacui, il terrore del vuoto, appare a macchia di leopardo nella storia del nostro occidente: si va dai libri miniati di Kells, ai pulpiti di Nicola e Giovanni Pisano, all’esuberanza barocca e rococò fino alla tronfia pesantezza vittoriana. Si potrebbe ipotizzare che alle tendenze spiritualiste che vedevano la materia come corrotta dal peccato, e l’umanità una massa damnationis si contrapponga invece la tendenza a ricoprire tutto di materia all’infinito, per rifuggire un senso d’incompiutezza, una vacuità. O forse questa tendenza è da ricercarsi proprio nelle pieghe del Cristianesimo e nella lotta contro l’iconoclastia, quando le chiese incominciarono a riempirsi di altari, figure, croci e immagini votive? Sarebbe una tematica da approfondire, il rapporto tra il nostro Occidente e il vuoto.

Per quanto riguarda l’estremo oriente, invece, esiste un libro, contenuto nelle dimensioni ma piuttosto denso, di Giangiorgio Pasqualotto che ripercorre l’idea del vuoto dall’India al Giappone, soffermandosi sul concetto di vuoto per i taoisti e per le mille forme del Buddhismo. Queste religioni sono infatti imperniate sul concetto di vuoto. Il capitolo XI del Tao Tê Ching (opera che abbiamo già introdotto in un precedente articolo) si riferisce proprio al vuoto:

Si ha un bel riunire trenta raggi in un mozzo, l’utilità della vettura dipende da ciò che non c’è.
Si ha un bel lavorare l’argilla per fare vasellame, l’utilità del vasellame dipende da ciò che non c’è.
Si ha un bell’aprire porte e finestre per fare una casa, l’utilità della casa dipende da ciò che non c’è.
Così, traendo partito da ciò che è, si utilizza quello che non c’è[1].

Come al solito il significato è abbastanza criptico, ma lo possiamo facilmente sciogliere: il significato letterale del testo è l’inutilità del lavoro umano senza il vuoto. Se il vaso non fosse cavo, non servirebbe a nulla; se una casa non fosse vuota non ci si potrebbe vivere. Vediamo subito come il vuoto (che in cinese è reso con il carattere wu) non coincida con il non-essere: non è il nulla assoluto, quel non-essere che «non è e non può essere» come diceva Parmenide. Si tratta invece di una concezione spaziale del vuoto, molto più simile all’idea di vuoto della fisica democritea.

Michael Kenna, Monti Huangshan, studio 56, Anhui, Cina, 2017 (particolare)
Michael Kenna, Monti Huangshan, studio 56, Anhui, Cina, 2017 (particolare)

Ma c’è un passaggio ulteriore: nel taoismo il vuoto e il pieno instaurano un rapporto dialettico: sono anch’essi gli opposti che si parlano e interagiscono tra loro. Un vaso è tale sia grazie all’argilla che ne delimita una forma, sia grazie al vuoto che è dentro di esso e che lo rende utile: il vuoto è concepito in una realzione funzionale. Ed è un pensiero di una modernità sconcertante per uno scritto di circa mille e cinquecento anni fa: in Europa per questo periodo di tempo si penserà allo spazio come un’entità a se stante, geometrica, fino alla perfezione della fisica newtoniana. Lao Tzu aveva intuito già da molto tempo la parzialità di queste posizioni: non si può dare importanza solo a «ciò che è», ma anche a ciò che non è, al wu, e questi si devono concatenare l’uno all’altro, in un mutuo rapporto.

Di diverso tenore, ma non di inferiore importanza, è il vuoto nel Buddhismo. La religione Buddhista si è sviluppata nei secoli in mille forme e in mille modi, ma nessuna ha rinunciato all’idea che il buddismo sia vacuità. Ma cosa intendono i buddhisti con vacuità? Non è esattamente il vuoto spaziale, è un vuoto costitutivo, molto più simile al nulla assoluto, ma non assimilabile al nulla del nichilismo europeo. C’è un testo, il Sutra del Cuore, che ne parla esplicitamente, e con una bellezza e un’attenzione per la parola che lo rendono uno dei mantra più affascinanti del Buddhismo:

Iha Sāriputra rūpam śūnyatā śūnyataiva rūpam.

Qui, o Sāriputra, la forma è vacuità e proprio la vacuità è forma[2].

Ritorna qui il rapporto dialettico: la forma è caratterizzata dalla vacuità e viceversa. Ma qui il discorso è molto più complesso e articolato, in quanto vuoto e pieno, nel taoismo, sono uno dei tanti opposti, sono uno dei tanti modi di chiamare le infinite vie del Tao: qui invece l’alternanza dialettica indica un’intrinseca vacuità della materia: siamo molto più vicini alla celebre formula del Qoeleth «havel havalim, hakol havel» (che potrebbe essere tradotta con: tutto è vapore, fuggevolissimo vapore) e si lega a doppio filo al concetto di «impermanenza» (anicca).

Michael Kenna, Kussharo Lake Tree, Study 1, Kotan, Hokkaido, Japan. 2002. (particolare)
Michael Kenna, Kussharo Lake Tree, Study 1, Kotan, Hokkaido, Japan. 2002. (particolare)

Il mondo è dunque in continua evoluzione, in continuo cambiamento e ciò provoca dolore nell’uomo: ecco che quindi la materia mostra la sua vacuità, e il saggio è colui che contempla questa vacuità nel mondo. La contemplazione del vuoto è centrale: è il modo con cui il saggio supera la paura dell’impermanenza, la paura del cambiamento e anche del supremo cambiamento, la morte. Il Buddhismo dunque in questa analisi acquista un carattere soterico di cui il Taoismo è privo. Pasqualotto segnala un passo del Sutta Nipāta, altro fondamentale testo buddista, estremamente interessante da questo punto di vista:

«Contempla il mondo come vacuità, o Mogharajan, sempre restando rammemorante» – così disse il Beato. Avendo distrutto la teoria di se stesso si giungerà a superare la morte; il dio della morte non vedrà colui che in tal modo contempli il mondo[3].

Ecco qui un’altra importante idea: l’idea della distruzione della teoria in se stessi. Una famosa storia zen narra di uno studente che voleva avere l’illuminazione (che nello zen è detto satori): si chiuse in monastero, lesse i sutra, studiò moltissimo e divenne uno dei monaci più zelanti del monastero. Ma non ricevette l’illuminazione. Allora divenne un eremita, e andò a vivere su una montagna per molti anni, fino a quando non si dimenticò i sutra e il monastero, e fino a quando non dimenticò addirittura il motivo per cui era diventato un eremita. Ed ecco che un giorno, passeggiando, diede un colpo ad un sasso che colpì una canna di bambù. E fu così che ebbe l’illuminazione.

Aveva fatto il vuoto nella sua mente.

E questo ci porta direttamente alle arti, al celeberrimo ikebana, l’arte della disposizione dei fiori, e ad un’arte rituale della parola, che nelle prossime puntate analizzeremo da vicino: l’haiku.

 


In copertina: Michael Kenna, Torii, dalla serie Visions of Japan. Michael Kenna è uno dei più grandi fotografi inglesi, noto per le sue lunghe esposizioni (anche dieci ore) e per le foto eteree e in bianco e nero. Il suo intento, soprattutto nelle opere scattate in Cina e in Giappone è scattare degli “haiku fotografici”, che esprimano la vacuità dei suoi soggetti.

Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.