Pascal D’Angelo, un emigrante che si racconta

Lewis Hine, Immigrati di Ellis Island, 1905

Ad alcuni poeti moderni 

I vostri nomi sono come giganti decapitati
che sanguinano di nero oblio:
siete le fragili voci
l’irriducibile ritmo di bellezza si contorce
sotto gli artigli delle vostre penne.

[…]

Dunque non addoloratevi
se le vostre poesie sono come la fredda
tenera erba di una breve estate.
Son pochi i veri fiori.

Così scriveva nel 1922 Pascal D’Angelo, poeta italiano emigrato negli Stati Uniti, parlando dei poeti moderni, dove curioso e originale è il paragone con l’erba tenera e fredda dell’estate, in cui rari sono i «veri fiori», così com’è raro trovare veri poeti.

Per motivi di spazio ho scelto i primi cinque e gli ultimi quattro versi, che rappresentano le punte più alte di questa lirica, nella quale sinestesie e allegorie servono a delineare le figure dei poeti contemporanei, «che bruciano fiamme di ardente desiderio / issate al sommo altare della Poesia».  Colpiscono questi versi, nei quali siamo chiamati in causa noi, come sedicenti poeti moderni; noi che ardiamo di desiderio poetico spesso senza costrutto, solo per inseguire un’immortalità, da cui siamo affascinati tutti, ma, come dice il poeta, «è un nulla che passa / di fronte alla grandezza dell’eternità».

Pasquale D’Angelo nasce a Introdacqua, un paese della provincia dell’Aquila, il 19 gennaio 1894. Si dimostra un ottimo studente ma i suoi studi non vanno oltre le scuole elementari, perché aiuta la famiglia fin da piccolissimo nei campi. Emigra con il padre negli Stati Uniti nel 1910, ma il sogno americano rimane tale, così come sarà per molti dei nostri connazionali.

Lewis Hine, Immigrati di Ellis Island, 1905
Lewis Hine, Immigrati di Ellis Island, 1905

Lavora insieme al genitore come manovale nei cantieri e incontra notevoli problemi sia per la lingua, che per lo sfruttamento, l’emarginazione e la povertà. Dopo cinque anni di fatiche e stenti il padre, deluso, decide di ritornare a Introdacqua. Pascal D’Angelo resta, convinto, come scrisse nel suo unico libro, Son of Italy, che «da qualche parte in questo paese avrei trovato la luce».

Si stabilisce a New York nel 1918 e vi resta fino alla sua morte.

Le liriche di D’Angelo, rigorosamente scritte in inglese, nascono nell’America degli anni venti,  chiamati per l’appunto: “Ruggenti“. È l’America del proibizionismo, dell’intolleranza razziale, di Sacco e Vanzetti e del terrore comunista; sono i Tempi Moderni di Chaplin, quelli delle grandi industrie, dei grandi cantieri, dove la vita umana perde il suo valore e  la sua dignità, dove i rapporti umani si sfaldano, si disumanizzano.  Questi sono i temi che D’Angelo  tratta nei suoi versi.

La sua è una poetica che non parla d’amore, di profumi o tramonti, ma di poeti falliti, operai morti sui cantieri, come nella poesia Incidente alla discarica di carbone (1924/25):

Come un sogno che muore nello splendore
frantumato dal peso del risveglio
egli giace, le membra inerti abbandonate,
laggiù in fondo alla mina
piena di carbone scintillante.

[…]
Lewis Hine, Power house mechanic working on steam pump, 1920
Lewis Hine, Power house mechanic working on steam pump, 1920

Questa poesia inizia con l’immagine di un operaio morto, il cui corpo viene descritto dalla voce straziata di un compagno di cantiere, che lo osserva e medita. In questa poesia è la vita spezzata del giovane operaio che viene ricordata dai suoi compagni di lavoro, dove scompare il lavoratore per lasciare spazio all’uomo nel suo contesto familiare, dal quale la sciagura lo ha strappato, lasciando il vuoto e la paura in chi resta.

Noi ci incamminammo verso casa
tristi, tremanti, ognuno per proprio conto.

In quell’ognuno ci siamo tutti dentro, vittime di un ingranaggio e di un potere senza forma, senza volto, asservito a logiche economiche amorali. Non c’è finzione in questi versi, ma solo dolore, che la forza della poesia eleva a sublime. In un’altra lirica, dal titolo La città, del 1922, di cui riporto i primi sei versi, il ragionar poetico rasenta il filosofico, se l’uso della retorica senza artificio, non le conferisse quella grandiosità che attanaglia la gola al lettore, scoperto e nudo davanti all’immensità della parola:

Noi che nascemmo per l’amore Divino
dovremo morire per l’Umano odio.
Noi che ci battiamo contro la distruzione dell’ignoranza
e la creazione di un amore innocente –
Lottiamo accecati dalla notte lugubre
in una città cupa e stranita.

[…]

Gustate il piacere di quell’anafora, «noi», che ci rende fratelli di nascita e di morte, di dolore e di rabbia del poeta. Noi che camminiamo come Pascal lungo le strade di città, nelle quali l’asfalto è doloroso, lugubre, dove i piedi si trascinano, dove la lotta per la sopravvivenza è brutale e priva di umanità; dove il Divino amore, che dà la vita, è schiacciato dall’odio Umano, che dà la morte.

Lewis Hine, Immigrati di Ellis-Island, 1905
Lewis Hine, Immigrati di Ellis-Island, 1905

D’Angelo cominciò a pubblicare su diverse riviste le sue poesie, che furono accolte favorevolmente e con l’aiuto di Carl Van Doren, che scrisse la prefazione, pubblicò nel 1924 il suo primo e unico libro Son of Italy, edito da MacMillia, che ebbe un grande successo e divenne libro dell’anno per il numero di vendite. La sua fama oltrepassò l’Oceano, approdando in Europa. Conobbe in quel periodo anche Mark Twain e con lui ebbe un rapporto di amicizia e di collaborazione artistica molto proficuo.

D’Angelo però non saprà sfruttare la notorietà e morirà povero nel 1932 in un ospedale di Brooklyn, per un occlusione intestinale mal curata.

Ho scelto di parlare di Pascal D’Angelo perché in questo periodo il dramma degli emigranti è all’ordine del giorno su quotidiani e telegiornali. Mi chiedo spesso: quanti di loro saranno poeti, pittori, musicisti, quante saranno le voci che rimarranno inascoltate?

Penso che se così tanta gente abbandona la propria casa, i propri affetti per sfuggire alla guerra, alla fame, allo sfruttamento, e si sposta da un capo all’altro del pianeta alla ricerca di «un po’ di luce», come diceva Pascal, non meriterebbe che si erigessero muri, come sta succedendo in Nord Europa, meriterebbe  una politica umanitaria che bandisse la produzione di armi, che ripudiasse la guerra e non solo a parole. Ma questo è un sogno, fatto da «una nobile anima, denudata / di fronte alla spietata realtà/ trema e geme» per dirla con Pascal D’Angelo, nei versi tratti sempre da La città.

 

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In copertina: Umit Bekta, Un fato incerto, 2016 (credits: Quartz)

Silvia Leuzzi
Silvia Leuzzi

Ho un diploma magistrale e lavoro come impiegata nella scuola pubblica da oltre trent'anni. Sono sposata con due figli, di cui uno disabile psichico. Sono impegnata per i diritti delle persone disabili, delle donne e sindacali. Scrivo per diletto e ho al mio attivo tre libri e numerosi premi di poesia e narrativa.