The Coral: ombre, sogni e rock ‘n’ roll

The Coral

Ho scoperto i Coral come li ha scoperti ogni buon cristiano al di fuori della loro natia Inghilterra: guardando la serie TV Scrubs, dove una delle loro canzoni più famose fa capolino all’interno della colonna sonora[1]. Non fu amore al primo ascolto. La canzone mi piacque e la feci entrare nel mio i-pod, salvo poi rimuoverla qualche mese dopo perché non la ascoltavo quasi mai. Dovette passare qualche altro mese prima che mi venisse la curiosità di andare a vedere cos’altro avesse tirato fuori quella band di cui non conoscevo altro che il nome e due minuti e mezzo di musica. Potete immaginare la mia sorpresa quando scoprii che quello che credevo essere solo un gruppo di nicchia, che aveva cavalcato l’onda di un singolo brano di successo, aveva invece già sfornato 7 album e aveva alle spalle quasi 20 rispettabili anni di carriera. Non potete invece immaginare la mia sorpresa quando scoprii che la loro musica era quanto di più bello il mondo del rock mi avesse regalato da molto tempo.

L’avventura discografica dei Coral comincia all’inizio del nuovo millennio, allorché Alan Willis, ex batterista per alcune band di Liverpool, s’imbatte nella locandina di una loro esibizione dal vivo, rabberciata alla bell’e meglio incollando insieme alcune immagini delle teste dei loro nonni che esplodono[2]. I drammi famigliari di Alan Willis ora non ci interessano, fatto sta che il nostro si lascia incuriosire dai nonni che esplodono e decide di andare al concerto. Da tempo Willis desidera fondare una propria casa discografica, ma non ha ancora incontrato l’artista che possa dargli la spinta decisiva per buttarsi in quel tipo di carriera; due ore dopo, alla fine del concerto, Willis ha trovato la sua spinta, i Coral il loro primo contratto. Nel 2001, per tastare il terreno, la neonata etichetta discografica Deltasonic fa uscire due brevi EP della band in tiratura limitata, e l’anno successivo il primo LP dei “sei di Hoylake” vede finalmente la luce.

Il primo disco dei Coral, dall’evocativo titolo di… uh… The Coral, è pervaso da una bruciante, spasmodica brama di gridare al mondo la propria presenza. Le sonorità ondeggiano tra un rock ‘n’ roll di impronta tradizionale e qualche incursione nel mondo del punk rock e della psichedelia anni ’60, senza però mai tradire quello che è sempre stato, sin dagli esordi, uno dei maggiori punti di forza della band: un incredibile talento per la melodia, che rende perfettamente godibile ogni loro canzone anche alle orecchie meno abituate a certi eccessi di audacia musicale. Dreaming of you – la famosa “canzone di Scrubs”, per intenderci – è un perfetto esempio della forza trascinante che anima questo disco.

La critica ha talvolta rimarcato come la volontà di stupire, di imporsi al pubblico abbia prevalso sulla ricerca di una reale unità stilistica per questo primo lavoro, ma bisogna dire che se qualcuno fosse andato dai Coral, sei ragazzi che nel 2002 avevano qualcosa come vent’anni, a parlare di “unità stilistica”, solo la british politeness di cui hanno sempre dato prova avrebbe impedito loro di mandare questo qualcuno affanculo. In The Coral la band si sta divertendo, e non fa nulla per nasconderlo; nonostante alcuni momenti di studiata gravità, alcuni segnali sembrano avvertire l’ascoltatore che poco o nulla di questo disco vada preso sul serio. L’andamento dimesso di Simon Diamond, improbabile storia di un uomo che si trasforma in un albero. Lo squarcio di epicità che irrompe nel mezzo di Wildfire, accompagnato dagli accordi decisi dell’organo elettrico. Lo scanzonato intervento del sassofono che interrompe il mesto andamento di una trenodia come Shadows fall e che è in pratica l’equivalente sonoro di una linguaccia.

The Coral entrò nelle nomination per il premio Mercury[3] il giorno dopo la sua uscita: quattro anni dopo, nel ricordare il disco, Alexia Loundras, critico musicale per The Independent, salutò i Coral come «un faro di talento e d’inventiva in un mare di rock serializzato[4]». Il loro non era stato un vero e proprio fenomeno musicale, ma gli allori che si erano visti spargere ai piedi sarebbero stati sufficienti a tentarli di saggiarne la morbidezza dormendoci sopra. Per i ragazzi di Hoylake, invece, tutto questo non fu che un ulteriore incentivo a proseguire lungo una strada che ora sapevano essere quella buona. Fu così che nel 2003 i Coral stupirono tutti: i coriandoli lanciati dalla critica per festeggiare il loro primo disco non si erano ancora posati a terra, ed ecco che già ne usciva un secondo. Un secondo che, col primo, già non c’entrava più nulla.

Ascoltare Magic & Medicine è un’esperienza. L’apertura è affidata a In the Forest, un brano curioso e vagamente inquietante il cui ritornello sembra dare il tono all’intero disco: “I’m in the forest so rare and devine, / This is the place where you lose your mind.”[5] Per l’ascoltatore, questo è veramente un luogo in cui smarrirsi. Le sonorità di Magic & Medicine hanno poco a che fare con la giocosa ribalderia di The Coral; tutto il disco viaggia in una sorta di dimensione onirica, grazie anche all’assoluta impassibilità vocale del cantante James Skelly che, testata qui per la prima volta, non verrà più abbandonata nei lavori successivi[6]. Se il primo disco sembrava mancare di unità formale, qui la mancanza di unità diventa un programma: ogni traccia è un mondo musicale a sé stante. Talking Gipsy Market Blues è stato da alcuni accostato a Bob Dylan, Don’t think you’re the first non sfigurerebbe in un film di Sergio Leone; Eskimo Lament offre un piccolo quadro di semplicità e struggente malinconia, mentre Liezah, una delle canzoni più belle del disco, cela dietro una parvenza d’ingenuità un qualcosa di non detto, che emerge con prepotenza nei bruschi passaggi al modo minore affidati alla chitarra acustica subito dopo il ritornello.

Unanime fu il parere della critica: il disco poteva piacere o non piacere, ma i ragazzi stavano crescendo. Per non perdere il ritmo di un album all’anno, nel 2004 la band sfornò il breve Nightfreak and the Sons of Becker, una bizzarria che, sebbene non priva di buone idee[7], aveva tutto il sapore di uno stacco pubblicitario. Ce n’era bisogno, perché l’anno successivo uscì invece quello che, salutato dalla critica in maniera piuttosto tiepida, è invece a mio parere il capolavoro dei Coral.

The Invisible Invasion è uno degli album più fottutamente inquietanti della storia della musica. Potete portarmi qualche altro centinaio di esempi per dimostrarmi il contrario, ma non ci riuscirete. Qui, ancor più che in Magic & Medicine, la copertina rispecchia alla perfezione il contenuto musicale: a chi appartiene quell’ombra? Che cos’ha in mano? È un sole nero, quello che sta guardando? È una scena dai contorni incerti, tetra e misteriosa eppure altamente evocativa, e così è anche il disco. Pieno di idee musicali semplici ma incisive, di sicuro effetto: la musica è un’ottima musica, e non è di difficile fruizione. Eppure tutto – musica, testo, effetti sonori – tutto concorre a trasmettere una sensazione di disturbo, l’idea che dietro a tutto questo si nasconda qualcosa. E non qualcosa di buono. She sings the mourning, la canzone che apre il disco, lo fa in modo improvviso, proiettandoci in uno scenario in cui tutto è mistero, tutto è buio e necessità di segretezza: “She sings the mourning / In the quiet night, / She said ‘Don’t worry, / We’re out of sight.’ ”[8] Questa disturbante atmosfera viene mantenuta anche nel brano successivo, la sinistra e splendida Cripples Crown, una porta aperta su quello che sembra essere una specie di albergo degli orrori. Una porta che alla fine del brano si serra inesorabilmente, lasciandoci chiusi dentro “senza più tempo, senza più lacrime”.

Nemmeno le due canzoni più leggere dell’album, la spensierata So long ago e la smagliante In the morning, riescono a riportare un bagliore durevole in questo oceano di tenebre: con il loro andamento spigliato stridono nettamente con le loro compagne, sembrano cadute lì in mezzo per caso e non fanno che acuire il senso di straniamento dello smarrito ascoltatore. Poca luce, insomma, in questo disco. Solo, come già puntualmente suggerito dalla copertina, diverse, intriganti sfumature d’ombra.

Dopo un simile tour de force di album, era inevitabile che i Coral decidessero di prendersi una piccola pausa. Per un paio d’anni si concentrarono sulle esibizioni live, anche perché ormai avevano un loro pubblico di aficionados che, anche se notevolmente scremato rispetto a quello che erano riusciti a mettere insieme con Dreaming of you, continuava a guardarli con mai spento interesse e curiosità. Finora avevano sfornato tre album, del tutto diversi l’uno dall’altro: quale sarebbe stato il prossimo passo? L’attesa era grande, ma, ahimè, questo rimediò solo in parte al mezzo fiasco che doveva accompagnare, nel 2007, l’uscita di Roots & Echoes.

L’album divise nettamente la critica: c’era chi vedeva in esso un segno di cedimento da parte dei Coral, un’eccessiva concessione al mainstream, e chi invece lo salutava con gioia come una ventata di aria fresca dopo i chiaroscuri di Magic & Medicine e del suo fratello cattivo. Non si può negare che Roots & Echoes sia l’album di più facile ascolto prodotto dalla band, ma perché mai questo dovrebbe essere un male? In questo disco, dove alcuni vedono mancanza d’ispirazione, io non riesco a vedere che semplicità, immediatezza e, come sempre, un grande talento per la melodia. Remember me sembra muoversi sinuosamente per i vicoli di una città addormentata, Jacqueline è la classica canzone che vorresti ascoltare guardando sorgere il sole in un campo di grano (qualunque cosa voglia dire).

La sdolcinata Put the sun back è di un’ingenuità che fino a quel momento i Coral non avevano mai mostrato di possedere, ma sta bene dove sta: l’effetto è più quello di una pausa caffè in una lunga giornata lavorativa piuttosto che di una vera caduta di stile. She’s got a reason è la colonna sonora che vorresti avere durante un viaggio in macchina in piena notte, lo dico per esperienza, mentre ascoltando la trasognata, bellissima Fireflies si è davvero convinti di assistere a una danza di lucciole al chiaro di luna.

In una mia personale classificazione, i Coral rientrano nella categoria della “musica notturna”, la musica che mi è praticamente impossibile ascoltare alla luce del sole. Tom Waits, Billie Holiday, la musica sacra del ‘600 francese, i Coral. Musica che, in un modo o nell’altro, fa appello a un lato della psiche in cui ti è difficile immergerti quando hai davanti a te i suoni e le forme chiare e distinte del giorno. Stanze piene di sogni e di ombre: è questo che i Coral ti vendono insieme a ognuno dei loro dischi. Stanze in cui chiuderti quando ne senti il bisogno, sia tu in cerca di un campo di grano, di una valle misteriosa, o anche solo di un garage in cui far casino con gli amici; di un bosco in cui danzare con le lucciole o di una foresta in cui trovare la follia. Stanze popolate da figure che commuovono o disturbano, ma che sono lì per te, pronte a farti dimenticare per qualche minuto la realtà delle cose. Pronte ad abbracciarti, se lo desideri, ogni volta che cala la notte.

Non so se i Coral facciano tutto questo in modo conscio, o se siano solo dei bravi musicisti cui la mia mente sognante ha attribuito un potere che non hanno. Fatto sta che, più o meno consapevolmente, ci riescono. Riuscirci è un’arte. E pensatela come volete, ma per me chi ci riesce è un vero artista.

 


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Federico Franchin
Federico Franchin

Sono nato a Monza nel 1991 e vivo a Milano. Ho una spiccata tendenza a occuparmi di scrittori e musicisti giudicati minori o semisconosciuti, perché seriamente convinto che anche a loro faccia piacere sentir pronunciare il proprio nome, ogni tanto.