La razionalità secondo Max Weber

Max Weber

Appunti di epistemologia – III

 

Leggi universali e necessarie guidano i mutamenti del mondo. Ne costituiscono la trama invisibile, la struttura impalpabile. Noi, enti tra gli enti, particelle di un tutto costrette a guardare il mondo da un punto di vista limitato, possiamo conoscere, ri-conoscere queste leggi, grazie all’osservazione e all’induzione. Sempre imperfetta, sempre migliorabile, tuttavia questa nostra conoscenza è l’unica garanzia di poter piegare il mondo ai nostri fini. Così facendo, innalzeremo monumenti più perenni del bronzo e l’umanità progredirà verso un avvenire luminoso.

Questo diceva il positivismo, signore delle scienze e della filosofia per quasi cento anni. Signore della filosofia, ma non sovrano assoluto.

Alla tensione verso l’universalità della legge, venne contrapposta l’importanza della singolarità dell’evento. La storia fece valere le sue pretese, non si accontentò di essere ridotta a una serie di calcoli statistici. L’Historismus era il campione di questa esigenza di separazione: scienze della natura e scienze dello spirito coabitavano, non convivevano.

Nello scorso articolo ci siamo occupati di tracciare un quadro di queste due correnti di pensiero e, nel farlo, abbiamo anticipato che toccò a Max Weber cercare di superare queste contrapposte esigenze. Superamento che coincideva con la risposta ad una domanda precisa: come comprendere razionalmente l’essere umano.

Weber, insomma, cercò di conciliare l’esigenza di elaborare delle leggi in grado di spiegare i fenomeni (e in particolare i fenomeni sociali) e l’esigenza di comprendere l’essere umano nella sua specificità. In questo modo, la razionalità, che sembrava potersi esprime unicamente nella forma della legge universale, doveva divenire caratteristica propria della comprensione, di quell’avocare a sé, appannaggio dell’immedesimazione storicista.

La strategia che mise in atto, che stupisce ancora oggi per l’eleganza concettuale, fu un sofisticato gioco di ridefinizione delle possibilità e dei limiti della conoscenza. Proviamo a tracciarne uno schizzo a partire da una domanda fondamentale: può il ricercatore essere neutro?

Max Weber
Max Weber

La risposta, anticipiamola, è no. Nessuno dei pensatori di cui stiamo scrivendo sarebbe disposto a sostenere la neutralità del soggetto conoscente. Radicalmente diverso però è il giudizio che viene dato di questa parzialità. Se i positivisti si battono perché ogni spazio soggettivo venga ridotto al minimo possibile, gli storicisti addirittura ne rivendicano l’apporto. «Umano è piuttosto esser parziali», scrisse Droysen (uno dei massimi pensatori del movimento dell’Historismus) nella sua monumentale Istorica. E Weber?

Si potrebbe dire che Weber parteggi per questi ultimi, ma sarebbe impreciso. Weber fa molto di più: afferma che la parzialità è condizione di possibilità di una qualsiasi conoscenza, è quello che chiama – prendendo in prestito l’espressione dal suo maestro, Heinrich Rickert – il “riferimento ai valori” del ricercatore (dove “valori” significa sia valori etici, estetici, culturali sui generis, ma anche fini della ricerca, strumenti di cui ci si dota, ecc.)

Senza darsi un fine, senza un corollario di conoscenze e credenze preacquisite, senza un contesto culturale (e sociale) che faccia da retroterra, nessuno potrebbe condurre una ricerca.

Non solo non sarebbe possibile elaborare delle generalizzazioni o interpretare dei fenomeni, ma non si sarebbe nemmeno in grado di registrare, descrivere ciò che ci circonda. Ogni termine, ogni nozione, ogni concetto che usiamo, infatti, rimanda ad un sistema di conoscenze, ad una “intuizione del mondo” complessiva, propria della società nella quale siamo inseriti e che assorbiamo fin dalla nascita.

La radicalità weberiana nel far proprio questo assunto è tale da non renderlo confinato a semplice presupposto del ragionamento. In ogni passaggio della metodologia weberiana si riverbera il problema della parzialità dello sguardo del ricercatore.

A partire da quello che forse è la nozione che ha avuto maggior fortuna nella sua produzione: l’idealtipo. Cos’è l’idealtipo?

Lasciamo la parola al nostro:

«Concetti come “individualismo”, “imperialismo”, “feudalesimo”, “mercantilismo”, ecc. sono “convenzionali”, [così come] le innumerevoli formazioni concettuali di tipo analogo, per mezzo delle quali cerchiamo di concepire e di comprendere la realtà[1]».

Max Weber

“Convenzionale”, precisiamolo, non significa qui arbitrario, ma determinato da quel “riferimento a valori” cui si faceva cenno prima.

Ora, cosa ci sta dicendo Weber? Ci sta dicendo che quando ci proponiamo di dare un senso a ciò che ci circonda, noi utilizziamo (prendendoli in prestito o coniandoli ex novo) dei concetti in grado di costituire una mappa dell’esistente. Questa mappa è la teoria. Teoria storica, teoria sociologica o psicologica. (Persino teoria fisica o chimica, ma non allarghiamo il campo e soprattutto evitiamo di far dire a Weber cose che non ha mai detto…).

Ma così come una mappa non è ciò che descrive, la teoria non è la realtà. Così come la mappa, con le sue macchie di colore sulla carta, le sue righe, i suoi segni convenzionali, serve a noi per capire quale strada prendere, la teoria ci serve orientarci. È un modello, né più né meno.

Modello che non esaurirà mai l’intera realtà, ma che permette di “illuminarne” certi aspetti e non altri, a seconda di quello che ci interessa.

Come tentare di conciliare questa sorta di ipersoggettivismo con l’esigenza di produrre un sapere oggettivo lo vedremo nei prossimi articoli. Per il momento torniamo al problema della comprensione razionale dell’uomo.

Quest’espressione, “comprensione razionale dell’uomo”, è ambigua. Può indicare la necessità di fondare un sapere razionale sull’essere umano, ma può anche voler dire che bisogna comprendere la razionalità dell’uomo.

In Weber le due interpretazioni vanno sempre di pari passo. Egli è convinto da un lato che un sapere che non sia razionale sia semplicemente l’assunzione di una serie di dogmi non dimostrabili (cioè sia fede e non scienza), e dall’altro che l’unico modo per poter comprendere scientificamente l’essere umano sia individuare la razionalità delle sue azioni.

Max Weber L'etica protestante

Che gli individui non agiscano sempre in maniera razionale però era perfettamente consapevole anche Weber. Si profila perciò l’esigenza, per il nostro, di definire cosa intendere per “razionalità delle azioni” dell’uomo. Anche la razionalità è un “idealtipo”, parte della mappa che dobbiamo costruire.

In un certo senso si può dire che Weber operi una risemantizzazione di questo concetto, tenendo separate due forme di razionalità: la razionalità secondo il fine (Zweckrationalität) e secondo il valore (Wertrationalität). La distinzione è importante.

Mentre la Wertrationalität è la categoria che serve per rispondere alla domanda «è razionale l’obiettivo che Tizio si è proposto?», la Zweckrationalität si interroga più specificamente sui mezzi di cui l’agente è dotato per raggiungere il proprio obiettivo. E se un giudizio sulla Wertrationalität rimane comunque legittimo, la scienza dell’uomo non può che limitarsi a ragionare sulla Zweckrationalität, pena confondere dei giudizi di valore con i giudizi conoscitivi.

Facciamo un esempio. Supponiamo di dover giudicare il nazismo. Tranne i nazisti, tutti concordano nel ritenere il fine di sterminare gli ebrei, i popoli romaní, gli omosessuali, le minoranze e gli oppositori politici un fine aberrante e da rifiutare. Sul piano della Wertrationalität i nazisti hanno agito in maniera assolutamente irrazionale. È possibile, anzi necessario, dare un giudizio di valore e dire che i nazisti sono wertirrational.

Purtroppo però i mezzi che hanno adottato sono stati tragicamente razionali ed efficienti e non possiamo che concludere che i nazisti hanno agito in maniera estremamente zweckrational. Questo è un giudizio conoscitivo perché implica un’indagine storica di questi mezzi: il complesso concentrazionario dei lager, il sistema di trasporto, le camere a gas, i forni crematori, persino l’organizzazione sociale interna ed esterna ai campi.

Con questa distinzione, la razionalità smette di essere una caratteristica delle sole leggi universali, come pretendevano i positivisti. Anche la comprensione può a buon diritto esser detta “razionale” e così fondare una scienza. Una scienza che certo non guarda alla fisica come modello, ma che è capace di autogiustificare le proprie pretese conoscitive. Una scienza particolare in grado di produrre un sapere universale: la sociologia.

Simone Coletto
Simone Coletto

Nato a Milano, classe 1993, laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia; lettore e appassionato di politica da sempre, ho avvicinato gli studi filosofici sui banchi del liceo (classico) e da lì ho compreso come questa disciplina dia ad ognuno la possibilità di capire e modificare il mondo.