L’importanza di essere dialettico – II
Nello scorso articolo abbiamo parlato della dialettica, e siamo giunti a dire che Kant poté mettere a punto quella che chiamò “logica materiale” partendo dall’identificazione tra logica, ontologia e metafisica. Ma come giustificarla, quest’identificazione? La questione non è per nulla scontata: la logica rimanda al linguaggio, l’ontologia e la metafisica all’essere in quanto tale.
Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un salto temporale e arrivare a Marx. Nel poscritto alla seconda edizione del I Libro del Capitale, Marx scrive di aver «civettato qua e là […] con il modo di esprimersi che […] era peculiare»[1] a Hegel. Nel corso di un secolo e mezzo dalla pubblicazione del capolavoro marxiano sono stati spesi fiumi di inchiostro per commentare questa affermazione. C’è chi ha visto in questa citazione la strada aperta al superamento del «lato mistificatorio» della dialettica hegeliana, c’è chi viceversa ha sostenuto che si trattò di un parricidio mancato, chi non riusciva a darne conto e chi invece riteneva la questione irrilevante. Non è certo il luogo per inserirsi nel dibattito. Piuttosto, ciò che ci interessa qui è comprendere in che modo Marx, pur «civettandoci», rivoluzioni la dialettica hegeliana.
Per Hegel, il pensiero fonda ontologicamente e logicamente l’essere. Tra i due momenti non c’è distanza ma piena identità e il compito della filosofia è di comprenderla in quanto tale. Il processo conoscitivo – «la verità […] nel senso altissimo della parola – […] cioè Dio[2]» – si trova sempre presso di noi, scrive Hegel. Non va ricercata in come è fatto il mondo oppure in un qualche al-di-là della realtà empirica. La verità è il processo di conoscenza, che si snoda e si dipana nel corso dei secoli e dei millenni. Solo che non ne siamo consapevoli (o almeno non lo eravamo prima di lui) e pertanto ci figuravamo il rapporto tra noi soggetti e la verità come un rapporto di alterità, nel quale noi tendevamo alla verità in vari modi (la fede, la mistica, la scienza…) e con vari mezzi (la preghiera, la meditazione, la matematica…).
Prospettive sbagliate queste, ma tutte utili – anzi necessarie – perché hanno preparato il terreno per la riflessione di Kant prima e Fichte poi.
Grazie a loro, la filosofia si è resa conto che:
a) L’oggetto acquista un senso solo se viene reso dal soggetto a sua propria misura;
b) Non c’è qualcosa a cui non possiamo dare senso (non c’è un noumeno, l’apporto di Fichte è in questo fondamentale).
«Il vero è l’intiero[3]», come scrive nella Prefazione della Fenomenologia dello spirito,e l’intero è l’umanità nel suo sviluppo storico, cioè lo Spirito.
Qui Hegel scivola verso una certa ambiguità. Da una parte infatti egli ritiene che la storia si dipani secondo una sua necessità interna. La storia ha un fine insomma, è teleologica. Dall’altra parte però ritiene che il compito della filosofia non sia di fare della storia o storia del pensiero. Lo sviluppo storico – da questo punto di vista – è accidentale e pertanto la comprensione dell’«intiero» deve procedere secondo una logica espositiva differente.
È una “logica deduttiva” si potrebbe dire, purché sia chiaro che qui “deduzione” significa kantianamente “giustificazione”. Solo una logica espositiva di questo tipo permette non solo di comprendere la totalità, ma anche di comprenderne la necessità ontologica e metafisica. L’abbiamo scritto nello scorso articolo: la logica “materiale” di Kant deve farsi ontologia e metafisica. Hegel la rende tale, pagando però il prezzo altissimo di identificare il pensiero con l’essere, dando la priorità ontologico-metafisica al pensiero e non all’essere.
Non è un caso se la prima sezione dell’Enciclopedia è dedicata alla Logica e non è un caso se la Logica è la sezione dedicata all’esposizione dell’“elemento logico” (das Logische) che struttura ontologicamente la realtà. Al punto che egli afferma che la natura, la materia ne è l’estrinsecazione, il suo porsi come “altro” dall’elemento logico stesso.
Quest’identificazione a parte subiecti significa che il rapporto soggetto-oggetto è colto come unità, ma sempre come unità “speculativa”. L’intero si risolve nell’idea, anzi: nel concetto, cioè nell’idea che si sa come idea. Certo, in questo modo l’affermazione che il mondo per l’uomo è sempre mondo-di-senso e che al di là del mondo-di-senso per l’uomo non è niente non può essere più chiara.
Però ogni aspetto sensibile, attivo, pratico nel senso più materiale del termine non può che essere svilito e sminuito. Anche il lavoro, inteso come la modifica del mondo secondo un progetto (momento fondamentale per Hegel, in grado di garantire la sostanziale vittoria del “servo” sul “signore” e l’ulteriore processo della coscienza – anzi autocoscienza in quel momento – verso lo Spirito![4]), è sempre e solo lavoro-dato-nel-pensiero. Le concrete conseguenze, anche quelle impreviste e imprevedibili, che producono uno scarto rispetto alla situazione di partenza (sia nel mondo che nel soggetto), sono totalmente ignorate come accidentali. Insomma, per parafrasare Protagora l’uomo, in quanto le pensa, è misura delle cose.
Il ragionamento, con Marx, viene ribaltato.
Il mondo è compreso in quanto è modificato, non è modificato in quanto è compreso. La centralità del soggetto non è messa in discussione, ma non è un soggetto “logico” (l’Io o la Coscienza o lo Spirito). È un soggetto sociale, storico, sono gli individui nella loro materialità, che danno misura alle cose secondo i loro bisogni ed esigenze. Al di fuori di ciò con cui l’uomo entra in relazione (foss’anche una relazione teorica, come i pianeti o le stelle visibili a milioni di anni luce di distanza), per l’uomo c’è solo uno sfondo grigio indistinto. In un passato articolo citavamo lo studio sui colori nella lingua degli Himba. Il concetto è il medesimo.
Ora, in questo rapporto soggetto e oggetto si trovano invischiati in una perenne dialettica. Il soggetto è limite e misura dell’oggetto e l’oggetto è limite e misura del soggetto. Ma è una dialettica che con Marx è finalmente storica e sociale, non è astratta e logica. Non si risolve nei concetti, ma nelle concrete configurazioni storiche, che superano i lati meramente limitativi (e perciò negativi) del rapporto tra soggetto e oggetto, conservandone ciò che vi è di positivo.
Sembra piuttosto astratto il ragionamento. Il modo più semplice per comprenderlo è fare un esempio. L’uomo si confronta da millenni con il problema di rendere “a propria misura” il mondo. È una necessità: senza agricoltura, senza produzione di vestiti e di abitazioni, l’uomo perisce o vive molto male. Nel corso dei secoli però gli strumenti e le tecniche per soddisfare questi bisogni essenziali non sono sempre stati gli stessi. Il mutamento non è e non fu mai arbitrario, frutto della pura volontà degli esseri umani coinvolti, né cascò mai dal cielo.
Ogni mutamento prendeva le mosse dalle concrete situazioni in cui gli uomini si trovavano inseriti. Ogni miglioria era tale perché agiva su un contesto dato, superando i limiti e le difficoltà (il lato negativo del rapporto tra uomo e natura) mantenendo le conquiste e ciò che funzionava (il lato positivo). Il filatoio a vapore per esempio conserva il principio del filatoio a mano, superandone i limiti (di tempo, precisione, efficienza). Il fatto di superare-conservando (aufheben) lo strumento che l’ha preceduto, lo rende una cosa al tempo stesso uguale e diversa dal filatoio a mano.
È uguale in quanto è comunque un filatoio, ma è diverso. Non solo perché il funzionamento della macchina è differente, ma soprattutto perché ha aperto la strada dell’applicazione del vapore alla produzione, e come si sa da quel momento il mondo non è più stato lo stesso (la denominazione di “rivoluzione industriale” lo indica chiaramente). Esso è e non-è al tempo stesso un filatoio. Com’è possibile?
La logica formale, viziata dal principio di non-contraddizione, qui è inapplicabile. La ragione è che la logica formale è statica, non afferra il dinamismo. Vede i cambiamenti come semplici somme di istanti diversi, senza cogliere il passaggio, le ragioni per cui da un dato momento si perviene ad un altro momento. E così si caccia in aporie e fraintendimenti. Si chiede com’è possibile che io resti me stesso se non sono più ciò che ero e non sono ancora ciò che sarò. La logica formale è la fotografia. Va bene, ma per comprendere davvero il mondo c’è bisogno del cinema. Il cinema è la logica dialettica, il metodo dialettico, il pensiero (e la prassi) dialettico.
Logica, metodo, pensiero (e prassi): la dialettica è tutto questo. È metodo perché è euristica; è logica perché è forma del discorso; ma non è pura forma perciò è anche pensiero (e prassi), è attenta cioè alle determinazioni specifiche ed nemica della speculazione astratta. La dialettica è dialettica anche nella sua definizione. È processuale e ostenta da sé il processo di comprensione del mondo che essa permette.
In che modo?
Lo vedremo nel prossimo articolo.