Riflessioni intorno a La Madre di Ungaretti

Gustav Klimt Le tre età della donna 1905 1

Questa mattina mi sono imbattuta nella poesia La Madre di Giuseppe Ungaretti, una bellissima lirica composta per la morte della mamma, avvenuta nel 1930.

E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.

In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.

L’ho letta sorseggiando il caffè, come sono solita fare. Una poesia serve a dare alla giornata un senso più alto e meno grigio. Mi sto deliziando dalla primavera scorsa con la lettura e lo studio di poeti italiani del primo Novecento.

Pablo Picasso, La madre, 1896
Pablo Picasso, La madre, 1896 (particolare)

Non mi piaceva la lirica italiana da ragazza, la trovavo pesante, triste. Questo riandare dentro il tortuoso percorso della poesia italiana, mi stimola a riconsiderarla.

In questi tempi ho capito il motivo, ho capito perché da giovane ho tenuto così a distanza i nostri poeti: la complessità delle tematiche trattate, il tono grave e la lacrima in tasca poco si confacevano con il mio temperamento ribelle.

Poi la vita, come dice Gozzano in Totò Merumeni, «[…] si ritolse tutte le sue promesse»; oggi, che gli anni ci hanno insegnato quanto poco possiamo incidere sugli eventi della vita, questi versi bucano il cuore, si fanno fratelli e compagni.

Quel sapersi preceduti nel regno dell’oltretomba, da quel bene immenso ed inesprimibile qual è l’affetto genitoriale, è stata una sensazione che ricordo ho provato anch’io alla morte di mio padre.

Per questo motivo i versi di Ungaretti «Per condurmi Madre, sino al Signore / come una volta mi darai la mano», che tanto svelano la nostra cruda solitudine di adulti, mi sono stati compagni di lacrime meste, lacrime di vecchi e non più prorompente valanga di acqua di giovane cuore, pieno d’amore non corrisposto.

Qui la Madre, nella sublimazione della morte, si fa divinità, si trasforma in quel che Virgilio fu per Dante, guida e conforto e la Morte perde il suo mantello di paura, nel quale è avvolta. Il poeta ormai non teme più di morire, perché è consapevole di avere nel mondo delle ombre, quella mano calda e confortante della mamma che le si farà incontro salvandolo da ogni insidia.

Berthe Morisot, La culla, 1875
Berthe Morisot, La culla, 1875

Ho provato questa sensazione forte, di un inaspettato conforto alla morte di mio padre, perché lui è stato il mio genitore quasi unico.

Il giorno in cui è morto, una morte annunciata da una malattia inesorabile, il cielo era azzurro, un vento di tramontana aveva spazzato ogni residuo di nuvole; il sole, pur nel suo gelo d’inverno, era splendente. Sembrava, a guardar con gli occhi all’insù, che qualcuno avesse deterso il cielo per renderlo più brillante. E proprio inebriandomi a tanta intensità di colore che, sentito il calore di quella mano invisibile, come d’incanto è svanito il mio terrore per la morte.

Un terrore per una condizione di non esistenza, che mi schiacciava e nello contempo mi aveva indotto per molti anni ad inseguirla in un processo autodistruttivo inconcludente, sempre legata a delle vanità superficiali.

Insieme con Ungaretti ci siamo scoperti dannati, per la fine di quell’estatica era di spensierato abbandono; dannati dal ricordo di quell’età peritura che è l’infanzia, e dannati infine, perché compagni di fossa in questa vita difficile, soverchiata dalla viltà e dall’ignoranza morale, ma pur sempre da vivere e da succhiare avidamente.

Quando pensiamo che i versi dei poeti siano una cosa difficile, astrusa, dobbiamo semplicemente lasciare che la poesia parli senza essere interrotta. A quel punto ci accorgeremo che ci appartiene più di quanto avremmo immaginato. Perché la poesia parla dei moti dell’anima, e di miriadi di emozioni di cui è piena una vita.

Silvia Leuzzi
Silvia Leuzzi

Ho un diploma magistrale e lavoro come impiegata nella scuola pubblica da oltre trent'anni. Sono sposata con due figli, di cui uno disabile psichico. Sono impegnata per i diritti delle persone disabili, delle donne e sindacali. Scrivo per diletto e ho al mio attivo tre libri e numerosi premi di poesia e narrativa.