Tiziano Terzani: cercare una cosa che non esiste, la verità

Tiziano Terzani

Se devo tirare una conclusione di quello che voglio fare con quegli anni che mi restano, voglio continuare a fare sempre quello che ho fatto: viaggiare per il mondo a cercare una cosa che non esiste, a cercare la verità.

(Tiziano Terzani a Carta Bianca, trasmissione televisiva del 1987 diretta da Leo Manfrini)

Leggere Terzani giovani, giovanissimi. Leggere Terzani a diciassette anni. Mette le ali ai piedi, e una voglia di varcare il mondo e abbracciarlo a grandi passi. Oggi se ne parla tanto, anche troppo. Terzani è diventato mainstream. Citatissimo sui social, ricordato in televisione, amato al punto che si è coniato un termine, terzanismo, per indicare una specie di visione del mondo ispirata alla sua vita. Forse è diventato un santino, Terzani. Con quella barba lunghissima e bianca, con quegli occhi neri penetranti, aveva proprio l’aria del santo. Ma Terani era tutto fuorché il santo, Non era un mago, né un saggio, o un vecchio uomo pacificato dal tempo. Era un cercatore, curiossissimo e contraddittorio.

E quindi, oltre a citarlo, parlarne, vederlo in televisione, leggere Terzani. Leggerlo tanto, a fondo, tutto. Partire, anzi, proprio dal fondo, da quel La fine è il mio inizio, il racconto di un padre ammalato di cancro che narra al figlio la sua vita strana e avventurosa al figlio. O meglio, il racconto di un figlio, che riporta le parole del suo dialogo con il padre (infatti alla fine è il figlio a sbobinare le registrazioni e ordinare il testo; quindi, alla fine, la penna è la sua). Il padre parla. E si rende conto che i pezzi divisi della sua vita, i flash che gli vengono in mente della Cina, della Thailandia, dell’Olivetti quand’era ragazzo, hanno un senso. C’è un filo, dice. Per tutta la vita non te ne accorgi, poi eccolo lì. Zac, c’è un filo, l’hai visto.

Quanta fatica, Terzani. Quanta fatica nel vedere, girare, mascherarsi, trovare il punto giusto, il momento giusto. Quanta fatica nel rincorrere la Storia, Terzani. Lo spirito della Storia che si apre e fa tremare. E la senti, nella sua prosa semplicissima, nella sua parlata burbera, in quell’accento toscano che si sente anche dalla pagina, e la perfora. Non la senti, leggendolo, tutta la fatica che ha fatto. Forse perché nemmeno lui la sentiva, viaggiando qua e là a raccontare le storie di guerra, a fare il giornalista, e poi a fare qualcosa di diverso anche rispetto al giornalista. Viaggiare, vedere luoghi, parlare, e poi viaggiare ancora, e interrogarsi. E poi di nuovo viaggiare, e ancora interrogarsi.

Tiziano Terzani

Terzani è un uomo che, ad un certo punto della sua esistenza, si è messo a fare come Socrate. È per questo che risulta difficile parlarne. Come prendere sul serio uno che, davvero, si mette a cercare di conoscere se stesso, uno che abbandona progressivamente le sue occupazioni, il suo lavoro, per cercare qualcos’altro?

In realtà ce lo dice lui stesso. Lo dice con la sua vita. Oggi conosciamo solo quel Terzani, l’ultimo. Ma in realtà è stato molte altre cose. Innanzitutto, era giornalista. Giornalista di guerra. Inizia con il Vietnam, per Der Spiegel, al tempo in cui, almeno all’estero (noi, no, noi in Italia siamo dei pionieri) si poteva pagare qualcuno per rimanere lì, vicino alla guerra, a raccontare, senza imporgli limiti di tempo, dandogli il modo di verificare tutto, di lavorare, di non fidarsi di quello che veniva detto nelle conferenze stampa.

Sei un giornalista, vuoi coprire la guerra, in Vietnam. Ti prepari, hai studiato il cinese, hai letto tantissimo; prendi la famiglia e vai a Singapore, ti trasferisci lì. Quella sarà la tua base. Non sai nemmeno bene se ci sarà qualche giornale disposto a pubblicarti. Ma tu sei lì. Perché? Perché nessuno ha ancora visto questi Vietcong, li si vede solo da morti. Nessuno ci ha mai parlato, nessuno sa bene chi sono, cosa fanno. Eppure questi guerriglieri lottano per la libertà e tengono in scacco la nazione più potente del mondo. Abbiamo tutti negli occhi le immagini del napalm, delle atrocità commesse dai soldati statunitensi, della devastazione. Davide contro Golia. Non puoi rimanere impassibile. Non ce la fai. Vuoi o non vuoi, sei dalla parte di questi Vietcong.

È così che scrive i suoi primi reportage, e i suoi primi libri, Pelle di Leopardo e Giai Phong. Ma non è tutto così roseo come sembra. Dopo la guerra in vietnam, si instaurerà un regime burocratico e poliziesco, sul modello sovietico, che non lascerà alcuno spazio alle antiche speranze di libertà. Piano piano si rende conto che i vietnamiti, principalmente, sono nazionalisti, e che il comunismo era l’ideologia più semplice, più immediata per veicolare questo nazionalismo.

Il ‘75 non è solo l’anno in cui termina la guerra del Vietnam. È anche l’anno in cui, in Cambogia, prendono il potere i Khmer Rossi. Il nostro giornalista sapeva chi erano: erano alleati dei Vietcong, combattevano anche loro per la libertà. E anche loro si vedevano solo quando erano morti. Allora parte per la Cambogia. Tutti dalla Cambogia scappano: lui ci va.

TIziano Terzani

E trova un immenso campo di sterminio. I Khmer Rossi, infatti, avevano in mente una sostituzione programmata della popolazione: i giovani, in quanto più facilmente plasmabili, sono la vera base per la costituzione della nuova società. I vecchi vengono trucidati con le scuse più ridicole. L’«uomo nuovo» propagandato dal comunismo si rivela un mostro iconoclasta assetato di sangue. L’eccidio, nel resto del mondo, è pressoché ignorato; e, tra parentesi, Pol Pot, il comandante dei Khmer Rossi, è morto impunito nel 1998.

Le certezze di Terzani vacillano. Si trasferisce in Cina. La Cina millenaria lo ha sempre affascinato. E lo affascinava anche questo nuovo corso della Cina, questa grande opera di «ingegneria sociale» che aveva instaurato il socialismo. Sapeva il cinese, si veste da cinese, manda i figli nelle scuole cinesi. Cerca in tutto e per tutto di mescolarsi, di mimetizzarsi fra gli altri.

Cerca di diventare, di essere, l’Altro. Senza però spogliarsi di tutto il suo vissuto precedente, senza perdere uno sguardo critico. È per questo che il suo mondo è così difficile e affascinante: perché si muove per estremi, per paradossi.

Ma anche la Cina doveva rivelarsi una grande delusione. Non era uno di quei giornalisti che si fanno portare dove vuole il regime, che scrivono quello che vuole il regime. Al contrario, Terzani, come ogni buon giornalista, era un incredibile rompiballe: andava dove non doveva andare, vedeva ciò che non doveva vedere, cercava tutte le contraddizioni, infilava il dito nelle piaghe. Spiato da lungo tempo, verrà accusato di contrabbando, arrestato e poi espulso dal paese.

Non smette però di credere negli uomini: continua, imperterrito, a descrivere ciò che lo circonda. In Cina aveva scoperto delle cose meravigliose. Aveva scoperto un «uomo vecchio», come lo chiama, un’umanità antica e saggia, che nonostante la rivoluzione culturale resiste, e non viene sradicata. Prova per quell’umanità gli stessi sentimenti che provava Pasolini per il popolo contadino dell’Italia della sua infanzia. Quella gente semplice, che vive di poco, che ha i suoi usi, i suoi modi di raccontarsi, di vivere: quasi un «lessico famigliare» tutto suo, grazie al quale si fa comunità, continua a vivere.

Tiziano Terzani

È la difesa pasoliniana di quest’umanità che lo porta a continuare a viaggiare. Che non lo fa mai arrendere. Dopo la Cina, il Tibet. E poi la Russia, e poi, infine, l’India, Gandhi. E dopo Gandhi, chissà. Non ci sono due Terzani, uno comunista e uno mistico-pacifista. C’è un filo. C’è un unico Terzani che di volta in volta sperimenta e ricerca, sperimenta e ricerca, e lotta e non smette di lottare.

Anche quando si renderà conto che la luna, lassù, se ne frega della cronaca, e della Storia. Che i giorni passano, e non si può fare per tutta la vita il «giornalismo», occuparsi delle notizie, che muoiono. Si renderà conto che bisogna occuparsi di altro, di noi. Capire chi siamo, capire perché ci siamo.

E così si mette a imitare Socrate. Non butta via tutta la sua vita, però. Non si converte. La usa però per cercare di capire cosa c’è oltre. E allora va in India. E allora si mette a studiare i sutra. E poi, quando alla fine gli diagnosticano il cancro, lui riesce a trovare lo spirito per farne un’ultima, grande, cronaca di viaggio. Di un viaggio sconosciuto in cui le strade non esistono.

Nasce in questo modo Un altro giro di giostra, il suo ultimo libro pubblicato in vita. Ha messo per l’ultima volta lo zaino in spalla, ed è andato a farsi curare nei luoghi più strani e improbabili del pianeta. Per farci vedere che la morte non è per tutti la stessa cosa. Che i modi di affrontare una malattia, di viverla, di curarla, sono tantissimi perché tantissimi sono gli esseri umani. E più sono strani, più fanno simpatia a Terzani.

E forse è questo, la sua vita: la storia di un grande amore per il mondo e i suoi abitanti; è la ricerca. Scavare, andare a fondo delle cose. Cercare la verità, anche se non esiste la verità, ma proprio per il cercare che insegna forse più della verità stessa.  Il fascino per questo mondo sterminato, per l’Asia. Saper narrare la quotidianità, la frutta nei mercati, la gente comune. Mettersi in dubbio, sempre, mescolandosi agli altri. «Essere» le altre persone, avvicinarsi il più possibile all’altro, al diverso.

 


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Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.