Essere uno a se stessi: la poesia secondo Franco Loi

Francesca Marini, Navigli, 2013

Ecco l’ultima puntata della conversazione sulla poesia con Franco Loi, uno dei massimi poeti italiani. Loi è un maestro che non si nega mai al confronto ed è sempre entusiasta nell’incontrare i giovani. Il 21 dicembre 2017 ha incontrato i ragazzi dell’associazione teatrale Studio Novecento, e ne è scaturita una sorta di intervista collettiva. Potete trovare qui e qui le puntate precedenti. In quest’ultima parte Loi si spinge ancora più nel profondo: la ricerca verso ciò che non sappiamo, la necessità dell’intuizione come atto primo di conoscenza.

Franco Loi:

Non crediate che sapendo le regolette si scriva la poesia. C’era un falegname, era lì che segava, con una mano, e intanto parlava con noi. Quando abbiamo smesso di parlare, gli ho chiesto se potevo provare io. Ho preso la sega, non riuscivo neanche a metterla nel legno. Perché? Perché, lui mi diceva, un legno non è sempre lo stesso. In quel caso lì, dovevo mettere la sega non dritta, ma così, quasi piatta. E mi ha detto: «Il mestiere ti fa imparare l’arte». Verissimo. E così è la poesia. Vanno bene le regole, e va bene impararle. Però bisogna anche avere l’esperienza. Amare. E la poesia è così, sei tu che devi trovare le regole.

Dante, quando ad un certo punto uno gli dice: «Ma tu non sei quello girava per le strade di Firenze cantando le sue canzoni?» risponde; «I’ mi son un, – io sono uno a me stesso; mi sono uno – che quando amor mi spira, – quando l’amore mi alita, mi muove – noto, – cioè ascolto, prendo nota – e a quel modo ch’ei ditta dentro, vo’ significando». Vado riempiendo di segni. Perché significato vuol dire segno. Segno di lingua o di costume. Ma un segno è un segno. Ma ci vuole l’amore, e l’essere uno a se stessi.

Domanda del pubblico:

Quest’essere uno a se stessi, lei come l’ha imparato? E come se lo tiene stretto?

Franco Loi:

L’ho imparato da bambino. Perché il bambino è sempre attento a se stesso. Il bambino si ascolta. E ogni piccola cosa… per esempio mio figlio, quando si muoveva. Noi quando vogliamo prendere qualcosa, lo prendiamo. Mio figlio… tac, con la mano, da una parte… tac… tac… a tentoni… e quando lo prendeva, rideva. Ma rideva, veramente, di gioia, come se avesse fatto chissà che cosa. Era riuscito a capire la distanza. E questo, noi adesso, invece, viviamo senza notare quello che succede dentro di noi, passiamo per strada, ci passano vicino le persone, vediamo cose, negozi, fiori, alberi… ma cosa succede dentro di noi, quando li vediamo? E li guardiamo, e hanno una rilevanza su di noi o non ce l’hanno? Come mai abbiamo perso il senso della vita? La vita è fatta dell’ascolto della vita. L’attenzione alla vita. E allora si impara guardando le sensazioni.

JohnHenry Fuseli The Nightmare
John Henry Fuseli The Nightmare, 1781

Confondiamo il buio con la tenebra. La tenebra è qualcosa che va al di là del vedere la luce, la luna o vedere le stelle. È al di là. È l’assoluta mancanza della luminosità minima. Quando siamo bambini, facciamo delle esperienze importanti, che si dimenticano. Perché poi incomincia la scuola, cominciano i rapporti con gli amici, le ragazze… ma l’esperienza delle cose che passano vicino a noi e che suscitano qualcosa vicino a noi… il nostro corpo è sensibile a tutto. I bambini di solito hanno una grande consapevolezza: il bambino si spaventa nella notte. E allora vuole venire nel letto della madre o del padre, perché è accaduto qualcosa che l’ha scosso profondamente. Lui lo sa. Ma poi quando cresciamo impariamo la logica. Serve, la logica; ma serve per muoverci tra i corpi.

Una volta, è successa una cosa importante. La sera, ho preso il mio autobus, sono sceso in piazza Durante, poi ho preso la via Casoretto e sono arrivato davanti alla chiesa. E mi ricordo che quando sono arrivato davanti alla chiesa – in quel periodo leggevo Feuerbach, e poi studiavo Carlo Marx, e quindi ero molto positivista – camminavo, e poi ho detto: forse Dante ha ragione. Non è così semplice. Può darsi che ci siano cose che avvengono, e che non ci danno modo di capirle, né di intenderle, né di avere delle esperienze.

E mentre dicevo queste cose, c’era una bella serata, con una bella luna, con le stelle… tutto questo l’ho descritto in un poema, che si chiama Strolegh. Nessuno ha capito che questo Strolegh deriva dal ricordo di quell’esperienza. Poi dentro c’è tante cose, c’è la rivoluzione francese, le partite di calcio con gli amici… un’infinità di cose. Quando ho voltato l’angolo della chiesa, improvvisamente dico: ma perché il corpo corre? E invece andavo adagissimo. Perché il corpo corre? E dentro, invece, il tempo si fermava.

René Magritte, Letteratura dimenticata (L'uso della parola), 1936
René Magritte, Letteratura dimenticata (L’uso della parola), 1936

Quindi avevo tre tempi. Ho detto: adesso saranno le undici e mezza, mezzanotte. E invece dentro il tempo non c’è più. È fermo. Camminavo, e sentivo una gioia straordinaria. Camminavo con questa possibilità – sentivo – di poter toccare la gente che passava dall’altra parte della strada, di poter toccare le stelle con le mani, di poter fare qualsiasi cosa. E allora questo… la baldanza, e dicevo: ma guarda, tre tempi dentro di me, e il fermarsi di un tempo, mi porta gioia.

Allora non è come sembra. L’orologio è una regola. Entriamo all’ospedale, il tempo non passa mai. Stiamo con la ragazza che amiamo, passa una giornata, e sembra che siano passati cinque minuti. Il bambino queste cose le sa già. Spesso sembra che faccia dei capricci. Il bambino vede e vive cose che noi non siamo più abituati a vivere.

Ho passato la piazza, sono arrivato all’angolo di via Teodosio. Quando ho voltato l’angolo, tutto si è rovesciato: dentro sembrava che dentro andassi ad una velocità incredibile. Io correvo, mi sono messo a correre, perché c’era un’ansia che cresceva dentro di me. E però mi pareva di star fermo. Come nel sogno, capita qualche volta, quando si è bambini, c’è la mano che vuol prenderci, noi scappiamo, e invece sembra di stare fermi. È la stessa sensazione.

Sono arrivato davanti al portone di casa mia, ho aperto il portone, e davanti a me, nell’atrio, c’era una barella con su steso mio padre. Il quale, era con gli occhi chiusi e le braccia lungo i fianchi. E ho guardato, ho guardato la lampada che ballava, dondolava. Ho guardato l’ombra, ho riguardato la lampada ho riguardato mio padre, e ho detto: è impossibile. E sono corso in mezzo all’immagine. Era un’immagine.

Però, due anni dopo, mio padre ha avuto la paresi. Abbiamo dovuto chiamare il medico, di Niguarda. Come l’ha visto, ha detto: è un ictus. E l’ha portato subito all’ospedale. E io sono andato via con gli infermieri. Per fargli strada, sono andato avanti; quando stavo per aprire il portone, ho fatto per tirare fuori la chiave – il portone si è aperto. E una signora che veniva a casa tutte le sere alle sei, quella sera chissà perché è tornata a mezzanotte. Era mezzanotte, quando l’abbiamo portato via. Quando ha aperto la porta, sono uscito, mi sono girato – e ho visto la stessa scena. C’era mio padre disteso sulla barella, con le mani lungo i fianchi, gli occhi chiusi, la lampada che dondolava.

Franco Loi
Franco Loi (photo: Luca Sala)

Questa ve l’ho raccontata per dirvi che la vita è fatta di cose che conosciamo e cose che non conosciamo. Dice giustamente Einstein: «non si perviene alle leggi universali per via di logica, ma per intuizione». E l’intuizione non la facciamo noi, con la testa. È possibile nel rapporto simpatetico con l’esperienza. Cioè amoroso con l’esperienza. Perché è il rapporto d’amore con l’esperienza che ci fa raggiungere anche ciò che non conosciamo.

E questo è importante. Bisogna stare attenti. Tutte le chiese fanno una logica – teologia, si chiama – su qualcosa che non abbiamo mai visto, né sappiamo niente, che è Dio. Però questo non vuol dire che Dio non esiste. La nostra conoscenza è relativa alla corporeità, ma non sappiamo cosa c’è oltre. Le teologie e le ideologie ci fanno credere che con la logica siamo riusciti a costruirci un’immagine del mondo. Ma il mondo è sempre al di là della logica. Perfino quando si tratta di noi stessi.

E allora bisogna stare attenti a noi stessi. Come Dante, che dice “I’ mi son un”, io sono uno a me stesso.

E a questo punto Franco Loi ha recitato una sua poesia, che riproponiamo qui, nell’originale e nella traduzione dell’autore:

Di Dio sono matto, si strappa la coscienza.
Vado in giro, lo penso, me lo rimugino dentro, e cammino…
E più lo penso, e più gli sono lontano.
Perché Dio è scherzoso. È come fa la luna,
che i miei pensieri son nuvole, e lui si nasconde.
E così io mi perdo via, parlo con gli uomini –
È matta la luna, chiara, luna che si rifà sempre luna,
con la sua luce che scivola lasciando il segno nella notte.

De Diu sun matt, se streppa la cusciensa.
Vu ‘n gir, el pensi, me ‘l remèni, e vu…
E püssè ‘l pensi, e pü ghe sun luntan.
Diu l’è schersûs… L’è cume fa la lüna,
ch’i mè penser în nüver, e lü se scund.
Inscì, me tundi via, parli cuj òmm,
e matta l’è la lüna, ciara lünenta,
cun la sua lüs che slisa ne la nott.

 


Ringraziamo Franco Loi, Rudy Toffanetti, Marco Pernich, Luca Sala per le fotografie della serata e Francesca Marini per la fotografia in apertura di questo articolo.

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Redazione

Amiamo la letteratura, la poesia e l'arte. Ma da centocinquant'anni i poeti circolano senza aureola, e quanto alla letteratura, dicono che non si senta troppo bene. Sarà vero? Intanto, prepariamo ironicamente le nostre esequie per un'arte ancora lungi dall'essere morta...