Seta, di Alessandro Baricco, appartiene a quella categoria di libri che genera un turbinio di pareri discordanti tra i lettori, che finiscono per dividersi tra chi considera le sue storie per ragazzine, sapientemente infiorettate ma senza alcun messaggio, e chi ritiene invece che sotto una coltre di apparente semplicità si nascondano sottili intuizioni e significati profondi.
Era il 1861. Flaubert stava scrivendo Salammbô, l’illuminazione elettrica era ancora un’ipotesi e Abramo Lincoln, dall’altra parte dell’oceano, stava combattendo una guerra di cui non avrebbe visto la fine. Hervé Joncour aveva 32 anni. Comprava e vendeva. Bachi da seta.
Questo l’inquadramento iniziale di una storia che procede poi lineare, scivolando via esattamente come seta tra le dita. Hervé Joncour è di Lavilledieu, paese francese che aveva basato la propria economia sulla produzione della seta. È l’uomo a cui viene affidato il compito di andare a prendere le preziose uova di bachi da seta in Giappone, dall’altra parte del mondo. Egli parte allora carico delle aspettative e degli investimenti in oro dei suoi compaesani, accompagnato nei preparativi e con il pensiero dalla dolce premura della moglie Hélène. Il Giappone gli riserva grandi sorprese: fa affari con Hara Kei, mistico personaggio che oltre a sete meravigliose e rarissimi volatili variopinti è circondato da una donna il cui sguardo magnetico intrappolerà Hervé, causando subbugli emozionali e dando origine ad irreparabili conseguenze.
Interessante è la personalità di Hervé Jouncour, personaggio che si vede vivere, e lascia che gli altri decidano della sua esistenza, assecondando placidamente le loro volontà.
Era d’altronde uno di quegli uomini che amano assistere alla propria vita, ritenendo impropria qualsiasi ambizione a viverla.
Una sorta di inetto sveviano, ma con una differenza sostanziale: è serenamente consapevole di essere spettatore più che attore nel teatro della sua esistenza. Con l’avanzare del tempo egli si allontana però da questa prospettiva, iniziando a disattendere persino i pareri di coloro a cui si era sempre affidato, prendendo finalmente in mano le sue sorti. Questo cambiamento lo condurrà alla fine a riuscire a prendersi cura della propria vita con la tenacia e la meticolosità di un giardiniere. Si badi bene a non confondere questa sottile evoluzione che si legge tra le righe con una sorta di rincuorante e scontato percorso di formazione a lieto fine; è infatti un fluire tra fasi diverse che conduce in modo spontaneo ad una liberazione dai condizionamenti esterni e alla presa di coscienza dei propri desideri.
Lo stile è quello inconfondibile di Baricco, con pagine spesso riempite solo a metà ma estremamente dense di immagini inconsuete che rimangono indelebilmente impresse. La sintassi piana e la trama semplice la rendono una lettura che si può assaporare in poche ore, anche se è poi nella rilettura che si possono cogliere delle altre sfumature dietro alla doppia storia d’amore, quella tra Hervé e la moglie e tra Hervé e la misteriosa donna di Hara Kei, che ha la consistenza impalpabile della seta, o del sogno: è una donna reale o una proiezione? Sta a noi decidere.
Anche in Seta, come in altre sue opere, Baricco gioca sulla ripetizione di alcuni frammenti narrativi nel corso della storia; Hervé viaggia per quattro volte verso il Giappone e per quattro volte la pagina che descrive il viaggio è pressoché identica, se non fosse per una frase:
Viaggiò per quaranta giorni fino a raggiungere il lago Bajkal, che la gente del luogo chiamava: mare.
La parola mare viene sostituita nel secondo viaggio dall’espressione «il demonio», e nel terzo e quarto rispettivamente da «l’ultimo» e «il santo». Una sorta di enigmatico messaggio in codice? Non vi resta che leggere Seta per tentare di decifrarlo.