Appunti di epistemologia – VI
Siamo giunti alla fine del nostro breve viaggio. Abbiamo sbirciato dal buco della serratura e abbiamo visto una strada: la strada della conoscenza, la «via del dubbio o della disperazione[1]».
Abbiamo visto che per strada ci stavano due strani gruppi di persone.
C’erano i positivisti. Coloro che sono stati in grado di dare una dignità filosofica all’idea di conoscenza comune, immediata, che tutti noi impariamo fin dalla culla.
Ma abbiamo riconosciuto anche i loro nemici. Storicisti, neokantiani, materialisti storici…
La strada era troppo stretta per entrambi. Ecco che si sono incrociati, insultati.
La strada è improvvisamente diventata un mare in tempesta. Le nostre credenze, che veleggiavano placide e spensierate, sono state scosse ribaltate colpite dai flutti e dai cavalloni.
Coi suoi rottami ne abbiamo fatto una zattera, coi nostri vestiti una vela.

La situazione pareva disperata. Però ad un tratto un’epifania. Abbiamo scorto la terraferma. Siamo sbarcati.
Era un’isola, «il territorio della verità (nome seducente), circondata da un ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza, dove innumerevoli banchi di nebbia e ghiacci, in corso di liquefazione, creano a ogni istante l’illusione di nuove terre e, generando sempre nuove ingannevoli speranze nel navigante che si aggira avido di nuove scoperte, lo sviano in avventurose imprese che non potrà né condurre a buon fine né abbandonare una volta per sempre[2]».
Impossibile salpare nuovamente dunque. O meglio: insensato salpare nuovamente. Anche riuscissimo a rimettere in mare la nostra Medusa ci smarriremmo tra le onde oppure – nella migliore delle ipotesi – saremmo risospinti indietro al punto di partenza, all’isola.
Siamo dunque condannati a restarci. Siamo condannati a non poterla trascendere, a rimanere abbarbicati su quegli scogli, su quella sabbia, tra quelle frasche.
Dei novelli Robinson insomma. Ma, a differenza sua e per fortuna nostra, non siamo soli. Con noi ci sono i nostri compagni di sventura. Siamo un gruppo, una società, forte degli insegnamenti appresi. «Piove» non è vero perché fuori piove: è vero perché se esco e non voglio bagnarmi devo prendere l’ombrello. «Piove» è vero perché si traduce in una prassi conseguente e coerente con quest’affermazione.

In altre parole, «la verità del pudding sta nel mangiarlo», come diceva il buon vecchio Engels. Questo non vuol dire né ricostruire una verità che si pretenda assoluta, né incedere in interpretazioni relativistiche del reale, in cui tutte le verità sono tali, e dunque nessuna lo è.
Nessuno spazio a idee la cui garanzia riposa nella placida e riposante credenza comune oppure in qualche istanza metafisica. (Il punto di vista di Dio, che tutto sa del presente, del passato e del futuro. Che non è né soggetto né oggetto. E che scruta i nostri poveri sforzi da formichine impazzite e dice: «Però, quanto sono bravi, le loro teorie sono un po’ più vicine a com’è in effetti l’universo»). E nemmeno a idee che pretendano di analizzare il mondo in modo statico, astratto (l’adequatio rei et intellectus, alias corrispondentismo).
Solo la condizionata eppure libera azione degli uomini consociati. La nostra tensione verso la comprensione del mondo ovvero il suo cambiamento (che è poi un sinonimo). Il nostro farsi carico del mondo e di noi stessi in maniera radicale. La nostra consapevole creazione del nostro futuro.
E con i resti del vascello naufragato? Be’, saranno buoni per scaldarci nelle fredde notti d’inverno.