Lo haiku: racchiudere il mondo in un solo verso

Tomikichiro Tokuriki, Tempio di Ohmi Katata Ukimido, 1950. Il Sosaku Hanga è stato una forma artistica nata all’inizio del Novecento che considerava l’arte un’espressione dell’io, e come tale, doveva essere interanente prodotta dall’artista.

Quando, alcuni anni fa, un monaco zen mi disse «Eh, questa storia degli haiku l’ho studiata parecchio, ma non sono mai riuscito veramente a venirne a capo» ci rimasi davvero male. Lo haiku[1] mi sembrava un mistero, una minuscola realtà impenetrabile a chi non conosca il giapponese: un microscopico congegno linguistico, un passatempo, una formula magica per l’assoluto. Mi sembrava tutto e niente al tempo stesso.

Lo haiku è l’unica forma poetica dell’Asia ad aver stregato gli occidentali, al punto che moltissimi poeti vi si cimentarono, come Jorge Luis Borges, Andrea Zanzotto o W. H. Auden, solo per fare degli esempi. La forza stessa del congegno poetico è una sfida: un solo verso, diviso in 5 sillabe, 7 sillabe e 5 sillabe. Noi occidentali tendiamo a rappresentarlo come un componimento di tre versi distinti, ma in giapponese sono solo brevi cesure.

Inizialmente si trattava di un gioco collettivo, in cui ogni giocatore, a turno, doveva comporre un verso di diciassette sillabe[2]; tutti i versi, messi insieme, formavano quindi una catena (haikai no renga). L’abilità stava nel riuscire a dare un senso, o una certa coerenza, a questa catena di versi, ma la parte divertente era l’effetto comico che potevano dare i versi accoppiati fra loro: se si conosce un po’ della poesia surrealista, con i suoi cadaveri squisiti, l’effetto doveva essere abbastanza simile.

Vi erano anche casi, diciamo così, più seri, in cui i partecipanti-giocatori si impegnavano a legare i versi e a dare un’innovazione, un’originalità, ma il primo che fece dello haiku una vera e propria arte fu un uomo del XVII secolo, di nome Matsuo Munefusa, o meglio conosciuto come Matsuo Basho, dal nome del banano che cresceva vicino a casa sua. E da un poeta che si fa chiamare “banano” possiamo aspettarci grandi cose.

Basho, infatti, pur elevando lo haiku a forma d’arte, non rinnegò mai l’origine umile e giocosa di questo componimento. Diceva spesso che gli haiku sono fastidiosi come «erbe sul sentiero della vita»; sono cose piccole, quasi da dimenticare, e che tuttavia tornano a far sentire la loro presenza. Spesso i suoi haiku sono scherzosi, ironici e autoironici. Questo tono sommesso, noncurante, è un atteggiamento tipico dello zen. Zen è nascondere grandi vertà dietro un gesto strano, o uno scherzo: ci sono casi in cui l’unica risposta giusta a un grande quesito è mettersi una ciabatta in testa, o dare un ceffone al proprio maestro. Lo stesso gusto per il paradosso, per la stranezza, accompagna gli haiku di Basho, che pure rimangono sempre equilibrati, assorti in una strana calma.

Hiroshi Yoshida, Barche che veleggiano, 1926 (particolare). Lo Shin Hanga, di cui Hirosji Yoshida fu un significativo esponente, era un movimento di inizio secolo che si prefiggeva un nuovo metodo di realizzazione dell'ukiyo-e, marcatamente collettivo e collaborativo (e quinque opposto al Sosaku Hanga), e influenzato dalla tradizione occidentale.
Hiroshi Yoshida, Barche che veleggiano, 1926 (particolare).

L’esempio più celebre è questo haiku, che si può considerare come la Gioconda di Basho, la poesia per eccellenza, il suo Infinito:

Furuike ya, kawazu tobikomu mizu no oto

Lo stagno antico –
una rana si tuffa
suono d’acqua[3].

Una manciata di suoni musicali, quasi cantabili; un’immagine fissa, una pausa, poi uno scatto: la rana si è tuffata. E poi solo i cerchi concentrici dell’acqua, il suo suono. Le reazioni a questo haiku sono generalmente due: divertimento da un lato, stupore dall’altro. Si capisce un po’ del perché sia nato come gioco di società, del perché lo stesso Basho trattasse gli haiku con una certa noncuranza: in fondo, sta parlando di una cosa qualunque, del salto di una rana. Stupore perché la brevità rende questa frase un concetto assoluto, come se nulla esistesse all’infuori di quella rana. Un intero mondo è racchiuso in un solo verso.

Si tratta di quello che il poeta Andrea Zanzotto chiamava «il grado 0 della lingua[4]», cioè la capacità di condensare in quelle diciassette sillabe un’esperienza, un’immagine, espellendo ogni narratività, ogni riferimento superfluo: mostrare ciò che accade in modo limpido, senza nuvole.

Infatti, se lo haiku nasce come gioco di società, con gli haikai no renga, Basho inizia a dargli dignità letteraria non solo perché inizia a scriverli singolarmente, e con uno scopo artistico, ma anche perché li inserisce nei suoi diari di viaggio. Il prosimetro, cioè la commistione di versi e prosa, era infatti un genere molto antico, ma per la prima volta, invece di altre forme poetiche, Basho inserisce degli haiku, e lo fa in modo leggermente diverso rispetto alla tradizione: se prima i versi continuavano la storia, oppure ne erano un commento, a volte ridondante, nei diari di Basho la narratività è interamente affidata alla prosa, mentre l’haiku ne è una sintesi, un tocco fulmineo che chiosa la narrazione ma senza mai appesantirla. In una delle sue opere più belle, Il sentiero per Oku, la sua tristezza nel dover lasciare la propria casa è raccontata così:

È il ventisettesimo giorno del terzo mese, in un’alba velata con la luna ancora nitida nel cielo: si erge in lontananza la vetta del Fuji, e io mi domando trepidante quando potrò rivedere i rami fioriti del vicino Ueno e di Yanaka. Mi accompagnano in barca gli intimi amici venuti a trovarmi la sera precedente. A Senju[5] salpa un battello: pur sapendo quanto illusorio sia il porto di questo mondo, verso lacrime nel congedarmi, con l’animo oppresso dal pensiero delle tremila leghe di viaggio che mi attendono.

La primavera trascorre,
piangono gli uccelli
e lacrime spuntano agli occhi dei pesci[6].

Tomikichiro Tokuriki Veduta di Tokyo vicino alla pagoda Yasaka, 1970
Tomikichiro Tokuriki Veduta di Tokyo vicino alla pagoda Yasaka, 1970

Lo haiku, qui, ripete la narrazione ma lo fa in modo del tutto diverso: mentre nella prosa il narratore e la cosa narrata sono distanti fra loro, distinguibili, nella poesia la natura partecipa della stessa tristezza del narratore, che vi trasferisce il suo sentimento. Finché il poeta descrive ciò che accade in prosa, lo fa con l’approccio di un visitatore esterno, che si sofferma sulle cose lambendone la superficie. Il senso profondo delle emozioni di Basho è invece affidato allo haiku, che diviene uno strumento di espressione, intesa in senso proprio, etimologico: ex-primere, tirar fuori il succo, l’essenza di qualcosa.

Vediamo anche una differenza con lo haiku precedente: mentre quello ci appariva come una freccia, fulminea e decisa, qui vediamo invece una rappresentazione più tradizionale, con immagini meno nette e precise, ma che comunque lasciano dentro qualcosa, anche se serve più tempo per rendersene conto. È una poesia meno perfetta (il pianto degli uccelli è ridondante rispetto alle lacrime dei pesci) ma che, forse proprio per le sue imperfezioni, risuona a distanza di tempo.

Vi è una tensione, all’interno del genere haiku, tra due esigenze: l’espressione del reale, nella sua immediatezza (la rana che salta) e la rappresentazione di un immaginario (in questo caso la tristezza), che viene codificato attraverso delle regole formali. Una di queste è il kigo, il riferimento alla stagione: nel secondo haiku è evidente il riferimento alla primavera, mentre nel primo è meno esplicito, ma c’è ugualmente: è la rana stessa. Esisteva infatti una serie di elementi simbolici, tra cui appunto la rana, che rimandavano alla stagione di riferimento: anche se ci può sembrare un orpello, una regoletta un po’ vuota, in realtà sono importantissimi, in quanto permettono di agganciare ciò che vede il poeta a un immaginario condiviso dalla sua comunità.

L’evocatività (e questo vale anche per la nostra poesia, e più in generale per tutte le forme artistiche) è sempre legata a una serie di immaginari, costituiti da elementi più o meno stereotipici che però in mani esperte ci permettono di vedere, di figurarci ciò che il poeta o l’artista sta evocando: senza immaginari condivisi, le parole di un artista risulterebbero vuote, troppo legate al suo vissuto individuale per essere comprese.

È tra questi due elementi che Basho gioca, mostrando però sempre un grande amore per l’immediatezza, per la spontaneità. Anche nella poesia del sentiero per Oku l’immagine delle lacrime negli occhi dei pesci è di grande forza, pur essendo piuttosto arificiosa. Il tentativo è sempre diminuire il più possibile la distanza tra il poeta e la poesia, tra la cosa espressa e colui che la esprime. Il fatto stesso di scrivere diari di viaggio permette un’osservazione della natura diversa rispetto al poeta di città: permette di prendere appunti sul campo, en plen air, di annotare le cose nel loro svolgersi.

Kawase Hasui, Shiba Zôjôji, dalla serie Venti vedute di Tokyo, 1925
Kawase Hasui, Shiba Zôjôji, dalla serie Venti vedute di Tokyo, 1925

Ancora una volta, torniamo allo zen. Osservare le cose nel loro svolgersi è infatti estremamente zen. L’illuminazione (e, come ricorda il maestro Daisetz Suzuki, tutta l’arte nipponica è volta all’illuminazione) nasce da un momento, da un istante, in cui degli eventi apparentemente insignificanti producono un effetto particolare nello spirito. Un monaco zen può raggiungere l’illuminazione camminando per strada e notando un certo profumo, o dando un calcio ad un ciottolo, che produce un certo suono, o ricevendo uno schiaffo (ecco perché era la risposta giusta), o osservando un impercettibile movimento di un animale. Si tratta sempre di azioni. L’azione improvvisa, immediata, che nasce e si conclude subito, è il perno su cui si sviluppa lo zen.

Senza volerlo, lo spiega benissimo un autore insospettabile, Alessandro Baricco:

A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buona notte, notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto: fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto[7].

Il momento in cui qualcosa si rompe, in cui c’è uno scarto, un «varco tra le maglie» per usare un’espressione montaliana. Il nostro primo atteggiamento è l’arrovellarsi, l’uscirci matti, il voler a tutti i costi comprendere. Il poeta si trova sempre a meditare su queste situazioni, su dei rapidi momenti che mostrano il collegamento inaspettato fra le cose, o l’accadere inesorabile, o l’impossibilità di trovare un senso, di stabilire perché, proprio quel giorno o quell’ora, quel quadro è caduto, o perché, proprio a quel giorno e a quell’ora, la luce brillava sull’acqua proprio in quel modo.

Basho, e con lui i maestri zen, non ci si arrovellano: ascoltano. Il salto della rana, l’immagine ferma dello stagno antico, il pianto degli uccelli: è questo ciò che il poeta vede, ciò che gli deve bastare. È questo ciò che esiste, qui e ora. Non c’è altro, solo uno stagno, una piccola azione – e poi il nulla, un suono che si spegne. E piano piano il monaco entra in meditazione.

 

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In copertina: Tomikichiro Tokuriki, Tempio di Ohmi Katata Ukimido, 1950. Il Sosaku Hanga è stato una forma artistica nata all’inizio del Novecento che considerava l’arte un’espressione dell’io, e come tale, doveva essere interanente prodotta dall’artista.

Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.