L’haiku e i suoi segreti: la poesia di Matsuo Basho

Tomikichiro Tokuriki, Tempio di Ohmi Katata Ukimido, 1950. Il Sosaku Hanga è stato una forma artistica nata all’inizio del Novecento che considerava l’arte un’espressione dell’io, e come tale, doveva essere interanente prodotta dall’artista.

Quando, alcuni anni fa, un monaco zen italiano mi disse «Eh, questa storia dell’haiku l’ho studiata parecchio, ma non sono mai riuscito veramente a venirne a capo» ci rimasi davvero male. L’haiku mi sembrava un mistero, una minuscola realtà impenetrabile a chi non conosca il giapponese; oppure una specie di gioco di società, rigidamente codificato e molto diverso dal nostro concetto di poesia, di lirica.

In un certo senso è vero: per avvicinarsi all’haiku bisogna sapere che inizialmente si trattava di un gioco collettivo, in cui ogni giocatore, a turno, doveva comporre un verso di diciassette sillabe[1]; tutti questi versi dovevano formare una catena (haikai no renga). I legami di senso potevano essere molto precisi o anche piuttosto vaghi, e la bravura del compositore-giocatore stava proprio nel costruire un verso che da un lato legasse bene con il verso precedente, e dall’altro presentasse dell’innovazione, dell’originalità. Solo nel XVII secolo un uomo di nome Matsuo Munefusa, in arte Matsuo Basho, elevò il componimento a dignità letteraria.

L’haiku è l’unica forma poetica ad aver stregato gli occidentali, al punto che moltissimi poeti vi si cimentarono e vi si cimentano, da Borges a Zanzotto, passando per W. H. Auden. La forza stessa del congegno poetico è una sfida: un solo verso, diviso in 5 sillabe, 7 sillabe e 5 sillabe. Noi occidentali tendiamo a rappresentarlo come un componimento di tre versi distinti, ma in giapponese sono solo brevi cesure.

Racchiudere il mondo in un solo verso: la sfida suprema per qualsiasi poeta. Ma non è solo questo. Se fosse così, sarebbe quasi un atto di superbia, questo haiku. Invece l’haiku nasce come un gioco, come una cosa piccola, quasi da dimenticare. Questo tono sommesso, noncurante, è un atteggiamento tipico dello zen. Tipicamente zen è il nascondere grandi verità dietro un gesto criptico, uno scherzo, un atto apparentemente banale, o, al contrario, paradossale. Quando vogliono parlare tacciono; quando tacciono, è perché vogliono parlare.

Hiroshi Yoshida, Barche che veleggiano, 1926 (particolare). Lo Shin Hanga, di cui Hirosji Yoshida fu un significativo esponente, era un movimento di inizio secolo che si prefiggeva un nuovo metodo di realizzazione dell'ukiyo-e, marcatamente collettivo e collaborativo (e quinque opposto al Sosaku Hanga), e influenzato dalla tradizione occidentale.
Hiroshi Yoshida, Barche che veleggiano, 1926 (particolare). Lo Shin Hanga, di cui Hirosji Yoshida fu un significativo esponente, era un movimento di inizio secolo che si prefiggeva un nuovo metodo di realizzazione dell’ukiyo-e, marcatamente collettivo e collaborativo (e quinque opposto al Sosaku Hanga), e influenzato dalla tradizione occidentale.

Sono tipi singolari, e ci ho messo un po’ a capirlo. E infatti, a ripensarci, credo che quel monaco zen stesse un po’ esagerando, per farmi capire che  per questo non è facile addentrarsi nell’haiku, e comprenderlo davvero. Per addentrarci, dobbiamo fare un salto indietro, all’epoca di Basho, e piano piano avvicinare l’haiku, come un timido cerbiatto, e, una volta arrivati alla distanza giusta, lasciarsi affascinare da questo microscopico congegno poetico.

Furuike ya, kawazu tobikomu mizu no oto

Lo stagno antico –
una rana si tuffa
suono d’acqua.

(Matsuo Basho, Poesie, haiku e scritti poetici, Milano, La vita felice, 1996)

Una manciata di suoni musicali, quasi cantabili; un’immagine fissa, una pausa, poi uno scatto: la rana si è tuffata. E poi solo i cerchi concentrici dell’acqua, il suo suono. Questo è uno degli haiku più famosi, scritto nel 1684 da Basho. Le reazioni a questo haiku sono generalmente due: stupore e divertimento da un lato, curiosità dall’altro. Divertimento in quanto parla di un evento insignificante, come il salto di una rana. Curiosità perché la brevità rende questa frase un concetto assoluto, come se nulla esistesse all’infuori di quella rana. E questa è una caratteristica della grande poesia.

Si trattava, come scoprii successivamente, di quello che il poeta Andrea Zanzotto chiamava «il grado 0 della lingua[2]», cioè la capacità di condensare in quelle diciassette sillabe un’esperienza, un ricordo, un’immagine, espellendo ogni orpello, ogni riferimento superfluo. E non solo: espellendo anche ogni narratività. Il modo più semplice di comunicare qualcosa è raccontarlo.

Tomikichiro Tokuriki Veduta di Tokyo vicino alla pagoda Yasaka, 1970
Tomikichiro Tokuriki Veduta di Tokyo vicino alla pagoda Yasaka, 1970

E il racconto più semplice è quello in cui c’è un narratore e una vicenda narrata, e questi due elementi sono ben separati, divisi. Esempio: i Promessi Sposi di Manzoni. Ora, l’haiku mostra che è possibile usare il linguaggio in maniera diversa, in modo che non sia semplicemente uno strumento di rappresentazione, di descrizione della realtà, bensì uno strumento di espressione. Espressione non nel senso comune di “comunicare”, né in quello di derivazione romantica che si usa di solito (purtroppo) quando si parla di poesia, e cioè la rivelazione dell’interiorità e dell’individualità del poeta. No: espressione in senso proprio, etimologico: ex-primere, spremere, tirar fuori il succo, l’essenza di qualcosa. E farlo nel modo più spontaneo e naturale possibile.

Quest’unico verso dovrebbe apparire al lettore giapponese come una freccia che colpisce il bersaglio, fulminea e nello stesso tempo quieta, come se fosse da sempre destinata a centrarlo. L’icasticità del verso contrasta con il contenuto, sempre meditativo, rarefatto: infatti la ricerca della poesia giapponese è sempre stata l’equilibrio tra l’espressione del reale nella sua immediatezza, nella sua realtà, e una serie di norme, di regole formali che servono a dare stabilità al componimento. Uno di questi è il celebre kigo, il riferimento alla stagione: in molti haiku troviamo espressioni come «tramonto d’autunno», «pioggia di maggio»; ma anche nell’haiku da noi citato c’è un riferimento alla stagione: è la rana stessa.

Cioè, la rana è sia qualcosa di reale, che il poeta osserva, sia un riferimento tradizionale alla primavera. È tra questi due elementi che Basho gioca, introducendovi una grande novità: l’immediatezza, la riflessione zen sull’azione, su un istante: La distanza tra l’esperienza a cui il poeta assiste (per esempio il tuffo di una rana) e la poesia deve infatti essere ridotta al minimo. Si tratta dunque di un’impressione fugace, di un momento irripetibile che viene colto per un attimo, miracolosamente. Non è un caso che gli haiku siano raccolti nei diari di viaggio di Basho: si tratta di appunti presi sul campo, en plen air, che si formalizza in un componimento breve ed estremamente accurato.

Questo tema del momento rivelatore, dell’istante magico, è estremamente zen. Il monaco raggiunge l’illuminazione (il satori) grazie ad eventi apparentemente insignificanti, ma che producono un effetto particolare nel suo spirito, e fanno sì che egli comprenda. Stando ai racconti, un monaco zen può raggiungere l’illuminazione camminando per strada e notando un certo profumo, o dando un calcio ad un ciottolo, che produce un certo suono, o addirittura ricevendo uno schiaffo, o osservando un impercettibile movimento di un animale. Si tratta sempre di azioni. L’azione, improvvisa, immediata, che nasce e si conclude subito, è il perno su cui si sviluppa lo zen.

Kawase Hasui, Shiba Zôjôji, dalla serie Venti vedute di Tokyo, 1925
Kawase Hasui, Shiba Zôjôji, dalla serie Venti vedute di Tokyo, 1925

A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto fra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buona notte, notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto: fran. Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto.

(Alessandro Baricco, Novecento, Milano, Feltrinelli, 1994)

Questa citazione di Baricco sembra non avere nulla a che fare con tutto ciò, eppure credo che spieghi abbastanza bene ciò che intendo con «azione improvvisa». Il poeta si trova sempre a meditare su situazioni di questo tipo, si trova sempre nella difficoltà di esprimere il succo, l’essenziale dell’esperienza che ha vissuto, anche quando questa sembra sfuggire da ogni parte, e le parole non bastano a spiegarla, a comprenderla davvero, per quanto sia piccola e apparentemente banale.

È per questo gli haiku che non possono essere accostati alle poesie brevi della nostra tradizione, come le celeberrime «Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie» di Ungaretti o Ed è subito sera di Quasimodo, perché queste fanno riferimento al sentimento individuale del poeta che diviene universale ed emblematico di tutta l’esistenza umana, mentre l’haiku fa sempre riferimento ad una realtà puntuale, precisa, ad un momento che non si pretende né eterno né universale. Il salto della rana, l’immagine ferma dello stagno antico: è questo ciò che il poeta vede, ciò che gli deve bastare. È questo ciò che esiste, qui e ora. Non c’è altro, solo uno stagno, una piccola azione – e poi il nulla, un suono che si spegne. E piano piano il monaco entra in meditazione. È questa, dice Basho, la segreta via verso il satori.

 


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Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.