Intro.
Seguendo l’esempio del nostro caro Mattia (Macbeth, Irrational man) e imboccando il percorso da lui tracciato nelle ultime settimane, ho deciso di porre sotto i vostri occhi alcune mie riflessioni (o meglio impressioni) relative all’ultima pellicola da me visionata nel modesto bilocale in cui alloggio, comodamente sdraiato su quel divano che non ha nulla da invidiare alle poltrone in pelle o in velluto delle innumerevoli sale cinematografiche sparse in tutta Italia. Sì, il film che sto per introdurvi (e di cui avrete già letto titolo e autore nell’immagine in evidenza) è già uscito da un pezzo nelle sale e, qualche anno fa, si è persino aggiudicato l’oscar per la miglior sceneggiatura originale.
Si tratta di una storia d’amore, una storia di monologhi dialoghi e vertiginose solitudini. Di fatto nulla di nuovo.
Lei.

Nulla di nuovo a parte il fatto che Lei, Samantha, non è un essere umano. No, in effetti sin qui non c’è nulla di particolarmente originale, la letteratura occidentale e il cinema americano (e non solo) ci hanno effettivamente sommerso di amori tra diversi, di amori impossibili, destinati secondo tutte le logiche a una fine non proprio felice, di storie che scavano e analizzano il sentimento più intenso provato dal genere umano, quella condizione che ad un certo punto del film un personaggio definisce un genere di follia socialmente accettato.
Eppure Spike Jonze, il regista, con Samantha, il primo computer in grado di provare emozioni, riesce a riproporre con un linguaggio nuovo una sostanza logoratissima, a sviscerare i turbamenti più nascosti dell’animo umano usando la tecnologia, sfruttando cioè quello che potremmo definire un robot ma senza considerarne i problemi etici che tale percorso comporta. Jonze è lontano da Asimov (e praticamente da quasi tutto il genere fantascientifico): Samantha è in grado di amare, di emozionarsi ma, ancor di più, è in grado di meravigliarsi, di lasciarsi stupire da se stessa e dal mondo. È capace di proporre un linguaggio nuovo elaborando, proprio come il suo autore, una sintesi originale del vecchio come quando, immaginando una fotografia che ritragga lei (senza corpo) e il suo Theodore, compone un bellissimo pezzo al piano.
Lui.
Theodore Twombly è un uomo solo ed introverso (interpretato da un notevole Joaquin Phoenix), un uomo-specchio dell’apatia e dei vuoti di cui ci circondiamo sempre più spesso ogni giorno, un uomo che, come spesso capita nei film, si occupa delle relazioni di terzi (scrivendo innumerevoli lettere) pur vivendo una pessima situazione sentimentale. Anzi, vivendo la mancanza dell’amore. In effetti la scena iniziale, con il suo volto che sembra scrutarci quasi assente, mentre detta una delle sue missive, costituisce un ottimo biglietto da visita per le due ore successive.
L’assenza della controparte comporta infatti un focus ininterrotto sul suo viso e sul suo corpo, uno sguardo che diventa particolarmente significativo durante i dialoghi con Samantha (a letto, in stazione, in ufficio, praticamente ovunque), quando la telecamera coglie ogni suo più piccolo turbamento, una ruga, sfaccettatura del pensiero. La realtà di Theodore è asfittica, monocorde, corre su binari prestabiliti e si mantiene lontana da possibili deragliamenti. E forse il suo rapporto con Samantha nasce proprio da questa incapacità, dall’impossibilità di rischiare un nuovo amore, di provare quella vertigine che l’amore da sempre infligge. È molto più comodo provarci con chi è al tuo servizio, con chi sarà sempre presente per darti una mano, con un soggetto che, poiché ti appartiene, non potrà amare nessuno all’infuori di te. Insomma una sicurezza laddove di solito non ce n’è nemmeno una.
Noi.
Ci lasciamo convincere dalla lingua del regista, semplice e pulita, dalle vicende dei pochi personaggi, dall’apparato tecnico, dall’amore di Theodore e Samantha (in alcune scene a dire il vero un po’ stucchevole) e non possiamo far altro che tirare le somme, una volta che scorrono i titoli di coda, di ciò che abbiamo appena visto. Jonze punta sulla semplicità, su più livelli di semplicità: i dialoghi significativi sono poco elaborati, piani e vanno dritti al punto, la relazione tra ricordi e immagini è esplicitata con un immediatezza che suda tenerezza (senza audio, limpida, nitida), le relazioni di tutti i personaggi sono ridotte ai minimi termini (sembrano novelli viaggiatori nel deserto della contemporaneità, fatta di grattacieli e vetri e schermi).
Come ho scritto sopra Jonze usa un elemento narrativo nuovo, originale, e ci costruisce sopra un melodramma che corre senza troppi intoppi verso la fine. Da un lato questo risulta essere il pregio del film, dall’altro il suo grande limite: una storia che si accontenta di un solo, profondissimo sentimento e che dimentica tutto il resto, che cancella ogni elemento di disturbo, lo arricchisce di sfumature e profondità, e abbandona qualsiasi altro riferimento. Da una parte questa scelta genera un grande fascino, genera riflessioni e, banalmente, potremmo scrivere che riscalda il cuore, dall’altra lascia l’amaro in bocca.
E un Oscar.
Leggi tutti i nostri articoli sulla fantascienza