Questa volta è a Shiraz che si svolge la nostra storia, nel cuore della Persia. Sappiamo poco di Hafez, questo poeta cortigiano che attorno alla metà del Trecento si aggirava per le strade mezzo religioso, mezzo miscredente, mezzo chi lo sa. È il più grande poeta dell’Iran; si dice che ogni famiglia iraniana tenga in casa, accanto al Corano, una copia del suo canzoniere. Per noi occidentali, invece, avvicinarsi a questa raccolta di liriche lacere e pregne di simboli appare un salto arduo e ardito.
È il salto che si compie immergendosi in quelle città color sabbia, in quelle strade tortuose, nel sole a picco che cede il passo a radure di alberi e steppa, nel in quel nulla fatto di sabbia e colline a distesa tra un centro abitato e l’altro. Siamo nel Trecento, e dopo un secolo di dominazione mongola, turbolenze, alternzanze e intrighi di palazzo, si apre una breve parentesi di tranquillità, che il buon Hafez aveva imparato a sfruttare. La decadenza di quell’epoca è per lui un sottile rumore di fondo. Non si avverte, leggendo il suo Libro del coppiere, né la guerra, né la paura: leggiamo del vino, dei bei fanciulli, di taverne e prostitute.
Hafez canta il sacro e il profano, i giovinetti dalle belle sopracciglia, le bettole dove ubriacarsi, le viuzze strette color dell’ambra dove incontrare l’amato. Eppure, la decadenza si fa sentire da lontano: dove sono i re antichi? Dove Creso, dove Noè, si domanda, e viene da rispondere che dormono sulla collina, come in un’antica Spoon River. E forse l’amore è un modo per esorcizzare la decadenza, dimenticarla.

Il libro del coppiere è infatti un cocktail particolare, che ha affascinato secoli di lettori, e continua a sedurre con la sua algida e aggraziata poesia. Non è un romanzo d’amore, né un poema epico. Si tratta di lirica, della lirica più pura: un al contrario si tratta di un attento gioco di variazioni e riprese, un caleidoscopio variegato come le miniature che di lì a qualche secolo esploderanno nei colori e nelle forme. Non a caso è chiamato Petrarca d’Oriente. Ma più che a Petrarca, forse è bene accostarlo agli stilnovisti, al primo Dante, a Cavalcanti.
Proviamo a mostrarlo con questo ghazal, che leggiamo nella traduzione di Carlo Saccone, grande esperto della letteratura persiana, da cui prendiamo le mosse per la nostra analisi. Non è facilissimo leggere Hafez. Dietro il linguaggio paludato, arcaizzante, si cela una grande lirica, un afflato d’amore sublime.
La tua bellezza il mondo intero ha catturato in lungo e in largo
il sole dei cieli è confuso pel volto leggiadro della luna terrena.Mirar codesta Leggiadria e venustà è precetto a tutte le creature
contemplare il volto tuo bello è dovere per le schiere degli angeli.Dal tuo volto luce ebbe in prestito il sole del quarto cielo
come settima terra schiacciato è dal peso di debito sì grande!Quell’anima che a lui non si dona, cadavere sarà in eterno
quel corpo che mai gli è soggetto, ben merita sì squartamento!Baciare la polvere dei piedi di lui: quando mai a te sarà dato?
La storia del tuo amore, o Hafez, sarà il vento un dì a recargliela.(Hafez, Il libro del coppiere, Carocci, 2003, p. 91)
Sembra un canto amoroso, di perdizione totale per una bellissima donna. Leggiamo poi che tale bellissima donna è in realtà un lui (notare come la lirica passi dal tu al lui con uno scarto quasi cinematografico). Non ci scomponiamo troppo: si tratterà dunque di un bellissimo giovinetto. Ma ci sono riferimenti astronomici che rimangono ancora oscuri, si fa riferimento alle schiere degli angeli, si parla di “precetto” per indicare l’impossibilità di tutti gli esseri di fronte a questa leggiadrìa, a questa tanto mirabile grazia: chi sarà questo misterioso giovinetto? Non è un equivalente maschile della Laura petrarchesca. Forse…

Sì, è Lui. È proprio Lui: Dio, Allah. È Dio, con i cerchi dei cieli e le schiere degli angeli. Quanto Dante in queste immagini. È il raggiungimento di Dio attraverso lo specchio per l’amore per un fanciullo: una realtà totalizzante e trascendente, intoccabile, come sono intoccabili le donne degli stilnovisti. Non è Laura, dicevamo. Invece è Beatrice, il correlativo oggettivo, il simbolo, di una realtà superiore.
E forse, ancora più di Dante, il nostro Hafez assomiglia agli stilnovisti. Come Cavalcanti o Guinizzelli devono attendere il saluto dell’amata come una grazia divina, così Hafez attende un cenno dal suo giovinetto, è completamente assorto nella bellezza di questo giovane angelicato, di questo Dio incarnato.
Si sono date molte interpretazioni del libro del coppiere, delle taverne di cui parla, del vino che inebria e dei bellissimi giovinetti di cui parla, dalle più letterali alle più trascendenti, che, ovviamente, sono accreditate tra gli esegeti religiosi. Il fanciullo non sarebbe altro che una metafora di Dio, della sua bellezza, della sua infinita grandezza. In questa similitudine echeggiano il Cantico dei Cantici, ma anche Il Simposio di Platone, anche se non sappiamo quanto li potesse conoscere.
Ma Hafez non è un musulmano qualunque. È molto vicino alla corrente dei sufi, considerata quasi eretica all’epoca, che ha come centro l’abbandono mistico nei confronti di Dio. Il sufi, soprattutto i sufi dell’epoca, scandalizzavano la popolazione per la loro povertà, per i loro usi semplici e per il loro violare le leggi islamiche, in nome di una legge divina maggiore. I sufi non disdegnavano i piaceri carnali, né il vino; la loro condotta poteva essere giudicata solo dalla purezza del loro animo, non dalla loro aderenza alle norme sociali. Il sufismo, e soprattutto il sufismo antico, era una pratica di meditazione e insieme una vera e propria missione di vita, in cui la dura legge islamica veniva meno rispetto alla pratica quotidiana, a quelle leggi non scritte che possono essere stabilite solo dal rapporto individuale tra il discepolo e la divintà.
E in questo vediamo allora come, forse, un approccio meno trascendente, ma simbolico in senso proprio, sia il più adatto a comprenderne il pensiero. Un approccio in cui il giovinetto è vero giovinetto, in carne ed ossa, ma anche Dio, e come attraverso l’amore si possa accedere alla divinità. E questo ricorda molto le donne di Guinizzelli, di Cavalcanti, o del primo Dante. Da un lato sono pretesti per parlare di Dio, ma dall’altro hanno una loro esistenza (anche se magari solo letteraria), sono donne vive: sono la monna Lagia, o la monna Vanna, e l’amore degli stilnovisti non era puro intellettualismo, puro gioco. La compresenza dei due aspetti li nobilitava entrambi.
Anche Hafez, con i suoi cerchi angelici, con le ruote di fuoco divine, forse ci sta dicendo lo stesso, in questo cantare l’amore in un’epoca di decadenza, di guerra, di desolazione. Ciò che conta è solo ciò che brilla, sembra dirci.
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