Giorgio Pasquali: gustare la letteratura con la filologia

Filologia e Storia: Jean Honoré Fragonard, Giovane ragazza che legge, 1776

Per gustare Dante, l’Ariosto, il Leopardi occorre sapere l’italiano: sentire attraverso una traduzione, anche ottima, lirici moderni, quali il Carducci o il Pascoli, non è concesso neppure all’animo più naturalmente disposto a simpatia, neppure alla sensibilità più sveglia e raffinata. Sapere bene una lingua significa sentirla immediatamente […] Uno può immaginarsi di conoscere perfettamente quella lingua, ed tuttavia non essere in grado di capire Molière o Rimbaud, perché a comprendere un poeta non basta intenderlo razionalmente, né sapere spiegare per filo e per segno che cosa abbia voluto dire […] All’emozione estetica che in noi, in chiunque di noi abbia l’anima, suscita la lettura di una poesia, conferisce ogni parola di essa; e noi la proveremo più intensa se riconosceremo intuitivamente se un vocabolo o un costrutto sia moderno o antico, vivo o risuscitato, appartenga all’uso comune o a quello ecclesiastico, curiale, tecnico, agricolo e così via.

(Giorgio Pasquali, Filologia e Storia, Firenze, Le Monnier, 1998, p. 5)

Non deve spaventare la patina linguistica dell’incipit di un testo del lontano 1920, un testo specialistico, scritto da uno dei nostri più grandi filologi: Giorgio Pasquali. Concentriamoci invece su quel gustare. Pasquali dice una cosa semplice, ma che a scuola non ci dicono mai: che la letteratura va gustata.

È il piacere per quello che leggiamo ad essere il fine (o almeno uno dei fini) del nostro ragionare sulla letteratura; e dunque anche il lavoro dello studioso deve essere indirizzato a quell’assaporare, a quel sentire. Tanto più quando si fa difficile, complicato, lacerante, perché mette in discussione parte di noi stessi, perché confronto con l’alterità.

Ivan Kramskoy, Lettura, 1863
Ivan Kramskoy, Lettura, 1863

Ma dietro tutto questo c’è sempre un piacere, che non può (come invece pensava Adorno) essere scisso dall’arte. Arte e piacere sono parte di un tutt’uno, e questo piacere non può essere messo al servizio di altre entità, del Vero, dell’Utile, del Giusto; al massimo può coabitare con esse; ma la ricerca del vero che non dia come risultato un’opera d’arte dalla quale ricavare anche piacere probabilmente non produrrà opere d’arte, e forse non è nemmeno una ricerca del vero.

L’apertura di Filologia e Storia ci dice questo: che dobbiamo aprire il nostro essere davanti all’opera d’arte, e non limitarci a consumarla: soffermarci su tutti i dettagli, sentire profondamente, dentro di noi, come si dovrebbe sentire del buon cibo, (e non trangugiarlo in fretta per poi tornare al lavoro). E questo va di pari passo con delle competenze, delle strutture mentali che dobbiamo crearci per comprendere meglio l’opera e dunque per sentirla. Intanto, comprenderla razionalmente: è il primo passo necessario. Sapere di cosa sta parlando il nostro autore. E questo non è per nulla facile, se si pensa a quei luoghi oscuri della Divina Commedia, ad esempio. Ma non solo: in poesia anche il testo apparentemente più semplice nasconde insidie (benedette e amabili insidie) che ci mostrano la continua ambiguità del linguaggio, la possibilità di sintetizzare gli opposti in un’unica parola, la stratificazione di significati di un’opera d’arte.

Ma la strada, seppur difficile, non è impossibile. Solo che, ci dice Pasquali, questo non è che l’inizio: dopo, c’è tutto quello che pertiene all’emotivo, vale a dire la musicalità del testo, il colore (eh già) delle parole, la loro struttura; e anche la loro lingua, da conoscere in profondità, scandagliando. Ci sono molti modi di conoscere una lingua; si può essere madrelingua eppure conoscere la propria lingua mediocremente. Si può però studiarla attentamente e riuscire a riconoscere le sfumature.

Ian Replin, Lettrice, 1876
Ian Replin, Lettrice, 1876

Avevo un professore di chimica che diceva spesso: «Chimicamente, non vi è nessuna differenza tra un ottimo champagne e l’ultimo vinaccio del supermercato. Qual è la differenza, allora? Le sfumature». Lo stesso vale nell’arte. È noioso? Forse; ma è come imparare a giocare a scacchi. I primi momenti ci si annoia a capire tutte le regole, dove muovono le pedine e come si fa l’arrocco. Poi però si impara, e ci si diverte. Certo, non tutti possono avere il tempo (e la voglia) di imparare nei minimi dettagli ogni cosa, di conoscere la lingua in ogni sfumatura, e sentire Montale come solo Montale poteva fare, Leopardi come solo Leopardi.

Ed è qui che diventa importante l’attività dello studioso: studiare un autore fino a immedesimarsi con l’autore, fino a conoscerlo e quasi saperne anticipare le mosse. Questo serve per due ragioni: quando il testo dell’opera non è arrivato a noi perfettamente integro (e i casi sono tanti: di Dante non abbiamo nemmeno una riga autografa), un tale pozzo di scienza può arrivare persino a indovinare la lacuna, la parola che manca: qualche volta è capitato che uno studioso suggerisse, per congettura, come si dice, di colmare una lacuna di un testo in un determinato modo, e poi, dopo anni, si scoprisse una nuova copia di quel testo, che riportava esattamente la parola indovinata dallo studioso.

Sono i piccoli miracoli della filologia, quelli che riempiono gli occhi di gioia.

Il secondo caso, invece, è meno tecnico ma non meno interessante: si tratta di poter accompagnare il lettore all’interno dell’opera, di illustrarne i passaggi criptati, di portare il lettore a gustare l’opera quasi quanto l’esperto.

E questo è forse il lavoro di cui oggi c’è più bisogno: far capire che una cultura seria, non dozzinale, può essere alla portata di tutti. Alla portata di tutti non perché sia semplice da capire, o perché possa essere ridotta in pillolette da mandare a memoria, ma perché può essere acquisita da chiunque abbia voglia di comprendere e sentire. Chiunque abbia l’anima, come dice Pasquali: chiunque riesca ad aprire la sua anima, a insegnarle ad ascoltare, a provare dei sentimenti.

 

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In copertina: Jean Honoré Fragonard, Giovane ragazza che legge, 1776

Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.