Gilgamesh e il diluvio universale: il crepuscolo del mito

Ivan Aivazovsky, Diluvio, 1864

Agli storici del passato l’antica Grecia doveva sembrare una sorta di grande fungo che spuntasse così, dal nulla, in un mondo barbaro in cui non vi erano grandi civiltà ispiratrici, escluso il troppo antico Egitto e l’inviso, nonché invidiato, impero persiano. La superiorità e ancor più l’originalità del mondo greco erano concetti ovvi e indiscussi fino a non molto tempo fa, e ancora oggi nel senso comune si pensa che sia nato tutto da lì, dai Greci, e continuiamo a considerarli i fondatori della nostra civiltà.

Certo, i greci erano un popolo orgoglioso, e hanno fatto di tutto perché i posteri pensassero proprio questo, e li considerassero qualcosa di ben diverso da quei popoli balbettanti e balbuzienti che li circondavano. Però, in realtà, le cose non stavano esattamente così. La gloriosa Grecia che riempie i libri di scuola non è nata dal nulla. Al contrario, esistevano già dei classici prima dei nostri classici.  Già Luciano, nella Storia vera, diceva, scherzando, una piccola verità: Omero sarebbe nato a Babilonia.

Idea azzardata, ma in un certo senso acuta.

È infatti in questa veneranda città che si trovano le origini di uno dei più antichi poemi a noi noti: il poema di Gilgamesh. Uno scriba di nome Sinleqiunnini, in un giorno imprecisato dell’epoca cassita[1], raccolse e cucì insieme, come fece Omero, gli episodi di una (già per lui) antichissima leggenda.

Il succo del poema è questo: il semidio Gilgamesh, re di Uruk, conosce Enkidu, con cui intraprende una serie di avventure; Enkidu muore e l’amico, sconvolto, va da Utanapištim, il grande vecchio che portò in salvo gli uomini durante il Diluvio, per chiedergli il senso dell’esistenza e scoprire il segreto dell’immortalità.

Gilgamesh e il diluvio universale. Stele raffigurante dei soldati medi

Già vediamo qualcosa di sorprendente: la Bibbia non è l’unica a parlare del diluvio universale. L’idea che la storia dell’umanità sia stata interrotta da un enorme diluvio percorre sottotraccia il mondo sumero, e poi cassita, e poi babilonese, arrivando fino agli ebrei, che lo assorbiranno nei loro scritti: è così che Utanapištim diviene Noé.

In realtà la storia di questo personaggio è più complessa, e si intreccia con altri poemi, come l’Atraḫasis, di epoca paleo-babilonese che racconta la storia del re di Šuruppak, nell’odierno Iraq, che altri non è che Utanapištim; ma in realtà la storia del diluvio è molto più antica, e risale ai Sumeri, in parte intrecciandosi ai racconti sumeri del Gilgamesh, ma in parte è presente in altri poemi, come Enki e Ninḫursaĝa, o nella Lista reale sumerica, un testo che registra la cronologia dei re sumeri, e in cui è citato anche Gilgamesh. Come tutti i miti, anche quello del Diluvio si perde in racconti orali, in testi di varia funzione, ed è molto difficile ripercorrerne le tracce. 

Ma Utanapištim non è certo l’unico eroe ad essere trasfigurato. Se iniziamo a leggere il poema, ci rendiamo conto che lo stesso protagonista, Gilgamesh, assomiglia in modo impressionante a una nostra vecchia conoscenza:

(Colui che) vide le profondità, (persino) le fondamenta della terra;
(Colui che) apprese [ogni cosa], rend[endosi esperto] di tutto;
(…)

Egli vide cose (segr)rete, (scoprì) cose nascoste
egli (rif)erì delle leggende dei tempi prima del Diluvio.
Egli percorse vie lontane, (finché), stanco e abbattuto, (non si fermò)[2]

Il viaggio, la scoperta: l’uomo che nel mezzo dei flutti sembra perdersi ma si rianima, colui che conosce ogni cosa essendo stato ovunque, in questo mondo e anche nell’altro. Basterebbero solo i temi a mostrare la somiglianza tra la saga di Gilgamesh e quella di Odisseo. Ma se leggiamo il famoso proemio, la somiglianza diventa quasi identità:

Raccontami, Musa, dell’uomo versatile che vagò tanto
dopo avere distrutto la sacra rocca di Troia;
vide molte città di uomini e ne conobbe la mente,
e nel suo animo soffrì molte pene per mare,
lottando per la sua vita e il ritorno dei suoi compagni[3].

Su quello che Paduano traduce come “versatile” si è scritto molto: in greco è πολύτροπος, politropo, “dalle molte forme”, e i traduttori si sono sbizzarriti. Il Pindemonte, nella traduzione che forse è più famosa, lo traduce come “l’uom dal multiforme ingegno”; Emilio Villa come “ingegno poliedrico”; in un meraviglioso saggio Pietro Citati la chiama “mente colorata”. L’archetipo di questa mente colorata lo si trova proprio nel Gilgamesh.

Ma con qualche differenza. Mentre Odisseo è astuto, è versatile, Gilgamesh è soprattutto tormentato. Ha perso il suo unico amico, il suo amante, la persona che per lui era tutto. Non solo: Odisseo tentava di tornare alla sua terra, ai suoi cari, alla sua amata[4], e ogni volta veniva sbalzato lontano. Se Odisseo divenne «del mondo esperto», per usare l’espressione di Dante, lo divenne suo malgrado. Qui, invece, è Gilgamesh a desiderare di mettersi in viaggio.

Gilgamesh infatti percorre molte avventure gloriose: non ha quel carattere vagamente provinciale, vagamente borghese dell’Odisseo greco. Assomiglia di più all’Ulisse dantesco, e anche a un altro eroe omerico: Achille. Come Achille è un eroe importante e amato dal suo popolo; un re forte, più che giusto, quasi invincibile, quasi un dio. Un quasi-dio che però, a un certo punto, perde l’amato, perde il suo Patroclo. E a questo punto Gilgamesh, che non aveva paura di niente, che non poteva essere sconfitto da nessuno, trova un avversario degno di lui: la morte.

Allora si prepara all’ultima avventura: al di là del grande fiume, al di là delle acque della morte, andrà a parlare con l’uomo che conobbe il tempo felice, quando l’umanità non conosceva che pace e immortalità. Questo è il nodo fondamentale del poema, e ciò che lo rende diverso dai racconti precedenti: Gilgamesh è un personaggio che muta, che intraprende un viaggio assieme fisico e interiore per scoprire il passato dell’uomo. Il famoso “viaggio dell’eroe”, alla base di tutti i racconti e tutte le storie, ha la sua prima grande espressione in questo poema.

Bassorilievo sumero

Ma una sorpresa attende il nostro eroe. L’uomo che ha visto il diluvio, l’uomo che ha fatto progredire la nuova umanità, il proto-Noè, non ha una buona novella, né, come gli stregoni delle fiabe, una magica pozione per curare ogni cosa.

Ecco le parole, liriche e amare, di Utanapištim:

L’umanità è recisa come canne in un canneto.
Sia il giovane nobile, come la giovane nobile
[sono preda] della morte.
[…]

Noi possiamo costruire una casa,
possiamo costruire un nido,
i fratelli possono dividersi l’eredità.
Vi può essere guerra nel Paese,
possono i fiumi ingrossarsi e portare inondazione:

(il tutto assomiglia al)le libellule (che) sorvolano il fiume –
il loro sguardo si rivolge al sole,
e subito non c’è più nulla[5].

La traumatica risposta strappa, leopardianamente, il velo delle illusioni.

Non c’è una soluzione facile al dolore. La casa che abbiamo costruito con fatica ci può essere spazzata via in un attimo da vecchi e nuovi diluvi. Questo è il ritmo della vita, e non vi è altra possibilità che accettarlo. L’unico premio che la vita ha in serbo per noi è il sapere. Πάθει μάθος (pàzei màzos) dirà, molto tempo dopo Eschilo: soffrire è insegnamento. Rimane solo il disincanto delle libellule che sorvolano il fiume, il loro guardare il sole.

A queste parole Gilgamesh non può che cedere. L’eroe deve accettare il mutamento. Il semidio deve far posto alla più triste realtà degli uomini. Eppure, proprio perché meno bella e mitica, la nuova realtà fa posto ad emozioni autentiche, a un mondo in cui non conta solo la forza e l’azione, ma anche il pensiero e il sentimento.

Gilgamesh dunque rappresenta il crepuscolo di un’epoca, dell’antica età dell’oro. Come Odisseo, che impara pian piano a fare a meno degli dei, anche lui raccoglie il nuovo sapere, le cicatrici del lungo viaggio e questo nuovo sguardo ormai disingannato, lucido: lo sguardo moderno di un mondo che muove i suoi primi passi nella Storia.

 

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Per approfondire: 
G. Pettinato (a cura di) La Saga di Gilgameš, 2004 Mondadori, Milano
Luciano, Storia vera, 1990 RCS Rizzoli, Milano
F. Beccaria, Le antiche civiltà del vicino oriente, 1979 Eurodes, Roma.
Omero, Odissea, 1964 Guanda, Parma

In copertina: Ivan Aivazovsky, Diluvio, 1864

Questo articolo, in una versione leggermente diversa, è comparso sul numero 2/2015 della rivista DeSidera.

Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.