La natura come rifugio: intervista a Franco Faggiani

Intervista a Franco Faggiani

Franco Faggiani è giornalista e scrittore. Ha al suo attivo alcuni libri di saggistica, ma è conosciuto soprattutto per La manutenzione dei sensi, pubblicato l’anno scorso per Fazi Ediore, che ha vinto diversi premi. Abbiamo avuto la fortuna di poterlo intervistare.

Con La manutenzione dei sensi, edito l’anno scorso da Fazi Editore, ha ottenuto un grande successo di critica e di pubblico. Da dove nasce la storia di Martino e di Leonardo Guerrieri? Da dove, ancora, l’idea per il profilo di due caratteri così distanti eppure complementari?

Stavo leggendo casualmente diversi libri in cui si verificava questa situazione: famiglie inizialmente meravigliose e brillanti che alla fine della storia si sfaldavano, i componenti si disperdevano quasi come naufraghi. Allora mi è venuta l’idea di scrivere una storia al contrario: prendere due naufraghi, ovvero due persone sole e solitarie per vari motivi, e unirli in una famiglia. Non sono dovuto andare a cercare ispirazioni tanto lontano, perché il libro è in gran parte autobiografico. Leonardo Guerrieri fa delle cose che ho fatto anche io e Martino Rochard è il ritratto di tanti ragazzini con la sindrome di Asperger che ho realmente conosciuto.

Franco Faggiani
Franco Faggiani (credits: Mulatero Editore)

Per i protagonisti del suo primo romanzo la natura ha un ruolo fondamentale. Nel capitolo iniziale, infatti, fuggono da Milano, dal caos di una città che non dorme mai, per rifugiarsi in montagna. Cosa significa per loro questa fuga dalla città? Perché poi proprio la montagna?

La fuga dalla città è il primo passo deciso verso quel cambiamento drastico che ognuno di noi, prima o poi, vorrebbe fare. E’ pure destabilizzazione, anche se questa, per chi ha la sindrome di Asperger, può essere controproducente. Ma a volte è meglio far accadere le cose piuttosto che aspettare che accadano da sole.

Passando adesso al suo nuovo romanzo, Il guardiano della collina dei ciliegi, sempre edito da Fazi, possiamo affermare che la natura selvaggia, incontaminata (o quasi) riveste un ruolo fondamentale anche per Shizo Kanakuri. Che ruolo assume il paesaggio, l’ambiente per il protagonista del suo nuovo racconto?

La natura ha lo stesso ruolo in entrambi i romanzi. All’inizio accoglie con diffidenza e sa anche essere severa. Se però ottiene rispetto e cura, se non la si violenta, accoglie, protegge e consola. La vita nella natura cambia, e se si impara a conoscerla con la consapevolezza che nulla ci è dovuto e che serve lo spirito di adattamento, cambia in meglio.

Shizo Kanakuri
Shizo Kanakuri

Il suo ultimo romanzo è una biografia romanzata, un genere non sempre facile da scrivere. Kanakuri, infatti, è una figura realmente esistita, un personaggio di cui si sa pochissimo. È stato difficile documentarsi su di lui? Quanto ha mantenuto di vero della sua biografia e quanto ha aggiunto invece?

Nei primi anni del ‘900 il Giappone era un Paese molto lontano, molto di più di quanto lo sia adesso e no c’erano canali di informazione. Anche i giapponesi non si conoscevano. Un conto erano le grandi città, un conto erano le isole agli estremi del vasto arcipelago. L’isola di Hokkaido, dove si sviluppa buona parte della storia era la frontiera estrema, inesplorata. Documentarsi, insomma, non è stato facile, ma è stato anche un lavoro molto affascinante. Di vero ci sono le parti estreme della vita di Shizo: la sua partecipazione alle Olimpiadi nel 1912, e il suo ritorno a Stoccolma, 55 anni dopo, per chiudere la sua impresa. Tutto quello che c’è in mezzo e figlio della creatività. Se il lettore non capisce cosa è realtà e cosa è fantasia io sono molto contento, perché vuol dire che ho saputo mescolare bene l’impasto.

I suoi primi romanzi sono caratterizzati, si distinguono da molti altri, per un linguaggio ricco e vario e uno stile capace di insinuarsi anche nelle pieghe più intime dei personaggi che racconta, personaggi miti, semplici. Come è stato il passaggio dal linguaggio e dallo stile giornalistico a quello narrativo?

Non è stato un passaggio complicato, anzi, mi è venuto quasi naturale. Questo perché anche nell’attività giornalistica ho sempre parlato di persone e luoghi e non di fatti di cronaca. Quando succedeva qualcosa di importante io venivo mandato a raccontare il “dietro le quinte”, chi c’era dietro gli avvenimenti, cosa li aveva scatenati. Insomma dovevo tornare a casa con una “storia”. E la storia te la raccontano le persone e i luoghi in cui vivono. La vera capacità sta nel saperle ascoltare per cogliere le sfumature. Sono queste che rendono grandi le storie.

 


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Redazione

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