Bestie di Federigo Tozzi: cogliere l’inspiegabile

Bestie di Federigo Tozzi / Odilon Redon, illustrazione

Per molto tempo Federigo Tozzi è stato per me un illustre sconosciuto; poi è diventato un nome ripetuto di tanto in tanto nelle aule dell’Università, e infine si è materializzato in un libro di seconda mano, su una bancarella: Bestie. Eccolo lì, Bestie di Federigo Tozzi. Toh guarda. Lo prendi, leggi qualche pagina. Ah, però, hai capito questo Tozzi. Paghi, e te ne vai con il libro in mano. Sottile sottile, al limitare tra prosa poetica e racconto, non si sa nemmeno come definirlo.

Romanzo non è: non vi è una vicenda vera e propria. Non è nemmeno un racconto: si tratta di varie prose giustapposte l’una all’altra, le quali, lette tutte insieme, danno vita ad un quadro. Non è dunque la trama su cui dobbiamo soffermarci: se lo leggessimo per quella, ne rimarremmo delusi. È, invece, il mondo di cose che nasce dalle parole di Tozzi ciò che dobbiamo cercare: sono le ampie descrizioni, le parole esatte, la capacità di scolpire la pagina, di estrarre l’oggetto, la cosa, dalle parole.

Che punto sarebbe quello dove si è fermato l’azzurro? Lo sanno le allodole che prima vi spaziano e poi vengono a buttarsi come pazze vicino a me? Una mi ha proprio rasentato gli occhi, come se avesse avuto piacere d’impaurirsi così, fuggendo.

(Federigo Tozzi, Bestie, 2001 Pietro Manni, Lecce, p.11)

Ivan Shishkin, Ai margini di una pineta
Ivan Shishkin, Ai margini di una pineta

Si apre in questo modo, con queste domande strane, che si faticano a capire. In che punto del ciel si è fermato l’azzurro? E perché si è fermato, perché ha smesso di essere inseguito dalle nuvole? Sono tutte domande che sanno, forse, le allodole, che volano in cielo e hanno il nido sulla terra, e si buttano su di esso, addosso al poeta, come forsennate, come cadendo dal cielo; sono domande che sapevano, forse, i nostri vecchi, i nostri primitivi, e che abbiamo perso, e oggi non riconosciamo più.

E un’allodola è corsa via in fuga, rasentandoci gli occhi, come se avesse avuto piacere di impaurirsi, quel piacere che hanno i bambini, e forse anche gli uccelli, nel loro volo. Il protagonista è un io narrante, che più che narrrare guarda, è un occhio perso nel mondo, un po’ come il buon Palomar di Italo Calvino, che guardava e rifletteva, guardava e rifletteva, e si faceva strane domande.

C’è anche una donna. Anzi, una parvenza di donna, una ragazza di cui questo enigmatico narratore è innamorato, ma che non si vede mai, né si sa come è fatta. Un fantasma, si direbbe. Un fantasma che allunga la sua ombra su Siena, una Siena arroccata casa per casa, pezzo per pezzo, come se gli edifici avessero paura di franare e di sciogliersi. Una Siena arcigna e austera, come i suo abitanti: la Betta, che aveva cinquant’anni quando morì di male nervoso, il Migliorini, che lavorava la terra un tanto al giorno, e si era fatto procurare la Gerusalemme liberata e l’Orlando, e, arrostendo un po’ di pane in una frusta che girava, teneva il libro aperto sulla coscia, e lo leggeva ispirato:

Ad ogni ottava, faceva il commento a modo suo; e poi: «State a sentire com’è bella! Non pare vera?» E batteva le lunghe dita terrose sul libro.

Clarence Gagnon, Sera a Siena, 1911
Clarence Gagnon, Sera a Siena, 1911

Siena della vecchia gobba, forse una strega; Siena delle due donne (ma questo Tozzi che lo dirà in un racconto) vissute assieme, uscio contro uscio, separate solo da un muro sottile; di qua la camera da letto dell’una, di là dell’altra. Vissute assieme detestandosi, eppure sempre assieme, l’una pensando all’altra, proprio come quelle case, abbarbicate l’una sull’altra, scontrose, appiccicate loro malgrado. Un’insoddisfazione, la sensazione di vedere solo una scaglia, una briciola del reale, solo una misera parte del tutto: questo permea il libro, si sente in ogni pagina:

***

Non so ancora spiegarmi, da otto anni, perché la mia amante, una volta, dopo aver bevuto una birra, chiudesse con il ventaglio aperto, dentro il suo bicchiere, una vespa che v’era entrata. Prima era entrata nel mio; ed ella l’aveva guardata sorridendo, divertendocisi quasi.
Io cercai di farle muovere il braccio, ma ella, con tutta la sua forza, non mi diede retta. Mi disse:
— Parliamo d’altro.

***

(Federigo Tozzi, op. cit. p.46)

Abbiamo la sensazione di non afferrare in pieno il discorso: si tratta di un frammento, ben delimitato dagli asterischi, che costellano il racconto come fiocchi di neve, come a delimitarlo, raggelarlo.  Un frammento particolarmente breve, in verità, ma abbastanza simile agli altri che compongono l’opera. La struttura: inizia con l’io, con una considerazione, come sempre, come nelle altre prose; continua con la presentazione del personaggio (l’amante) e della situazione (la birra); apparizione dell’animale; chiusa, inaspettata.

Eppure, nemmeno delineandone lo scheletro ne abbiamo penetrato il significato. La risposta sta nell’accumulo di atti gratuiti qui descritti. Appare una vespa: invece di scacciarla, la si imprigiona. Anzi, no. Prima la si sta a guardare, con un mezzo sorriso, poi la si imprigiona, con un certo oscuro piacere (come il piacere dell’allodola). E mentre quella ronza disperata nel bicchiere, chiusa da un ventaglio aperto (si noti il bisticcio, il paradosso tra “chiuso” e “aperto”) l’io narrante agisce, e le scuote il braccio (perché?), ma lei non dà retta (perché??) e dice: “Parliamo d’altro”.

Odilon Redon, Ofelia, 1903
Odilon Redon, Ofelia, 1903

Sono quelli che altrove Tozzi definirà i «misteriosi atti nostri», che lo spingono a scrivere: tutta la sua scrittura vive di questo impulso, dello scoprire, dell’analizzare l’atto gratuito, incomprensibile, inusuale, come quello di chi, andando per strada, si fermi ad osservare un comunissimo sasso, e vi indugi, per poi proseguire la strada. Cosa avrà visto il passante in quel sasso così comune? O forse il punto non era il sasso, ma un altro oggetto vicino? O forse erano i pensieri del passante, i veri responsabili, e il sasso solo uno spettatore accidentale di un moto dell’animo, di qualcosa che è venuto in mente al passante?

Ecco perché la scrittura del nostro appare così seducente. Come spesso accade, uno scrittore lo si scopre nelle pieghe, nelle minuzie. Come Fenoglio, come Boine, o Scipio Slataper, anche Tozzi mostra la sua forza nel dettaglio, e non nell’affresco. La storia non conta. Non conta l’amoretto di Con gli occhi chiusi, non conta la vicenda di un inetto, come il Remigio del Podere. Questi romanzi (cui il nostro Mattia ha dedicato un approfondito articolo), che potrebbero apparire deboli, minori, sono invece attraversati da domande, da tormenti subliminali, appena accennati, che però riverberano nella mente del lettore.

Un autore così, ma di tutt’altra epoca e pasta, era Raymond Carver. Può sembrare assurdo, ma con Carver Federigo Tozzi condivide la stessa capacità di costruire un racconto il cui cardine, il cui argomento centrale, rimane inespresso. Tutto ruota intorno a un vuoto, a un nero, un inesprimibile, a cui solo il lettore può dare, forse, una risposta. Perché, in Con gli occhi chiusi, il protagonista si ostina nel suo amore, che poi non è altro che un simil-amore, un amore come ricerca di uno status symbol, o tuttalpiù di un affetto infantile? Perché Remigio si ostina a mandare a monte il Podere, l’eredità paterna?

È la riflessione sull’inspiegabile, la vena poetica di Tozzi.

Che punto sarebbe quello dove si è fermato l’azzurro?

 


Leggi anche: Federigo Tozzi: identità a brandelli, evoluzioni ad occhi chiusi

Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.