È il meriggio. la calda luce di un sole nascosto disegna lunghe ombre sulla grande distesa di terra che è la piazza in cui ci troviamo. Ai lati corrono decine di archi austeri, in fondo un muro interrompe la vista e ci lascia scorgere, oltre il suo margine, il grigio sbuffo di un treno e un’altissima colonna di pietra: una ciminiera. Siamo soli. O forse no: alcuni oggetti, forse manichini o trucchi da prestigiatore, si trovano su un margine del grande spazio deserto e su tutto incombe, distante ma vicina, quasi tangibile, quella presenza, l’immota e misteriosa figura del poeta.
In un chiaro pomeriggio d’autunno ero seduto su un banco in mezzo a piazza Santa Croce a Firenze. Certo non era la prima volta che vedevo quella piazza […]. Il sole autunnale, tiepido e senza amore, rischiarava la statua e la facciata del tempio. Allora ebbi la strana sensazione di vedere tutto per la prima volta.
VICTORIA NOEL-JOHNSON, La formazione di De Chirico a Firenze (1910-1911): la scoperta dei registri della B.N.C.F., in METAFISICA, Quaderni della fondazione Giorgio e Isa De Chirico.
È il 1910 e i fratelli Giorgio de Chirico e Alberto Savinio si sono trasferiti a Firenze solo da pochi mesi; sino all’anno precedente avevano studiato a Monaco di Baviera, ma a causa di alcuni problemi di salute Giorgio erano partiti in cerca di una città dal clima più caldo e che fosse altrettanto appetibile sotto il profilo culturale.
In effetti i primi mesi fiorentini dei fratelli de Chirico sono un dedalo intricatissimo di letture di diversa natura. Giorgio legge molto di storia greca, di mitologia e spiritualismo così come il fratello, e sviluppa quella che sarà la fonte, la mitica sorgente del suo lavoro artistico nel decennio successivo.

In quell’atmosfera sospesa, quasi da sogno enigmatico, si congelano, l’una sull’altra, tutte le conoscenze racimolate in quei pochi mesi. Da sempre, tra quelle piazze, silente osserva la figura del poeta, il poeta che è trasfigurazione di Apollo e dunque dello spirito apollineo (secondo quanto scrive Nietzsche), manifestazione della razionalità umana.
Una volta è il busto di Cavour appena accennato di schiena: un’altra il meraviglioso profilo dell’Apollo del Belvedere (e qui il richiamo pare quasi immediato); più di una volta si indovina il profilo del nostro sommo poeta, Dante.
L’arte metafisica è fine a se stessa: gli oggetti di scena non rimandano ad altro, o almeno, più specificatamente, non fanno precipue allsioni alla realtà contemporanea (ovvero gli anni pieni di tensione prima della Grande Guerra) quanto ad una realtà superiore, a-simbolica ma profondamente enigmatica.
De Chirico non vuole essere chiaro: vuole che lo spettatore si sforzi nella lettura dell’opera. Questa, però, deve rimanere chiusa in se stessa, non può essere comparata ad altro, né, per essere compresa, compresa non necessita di un sistema di confronti.
Dunque le ciminiere sono ciminiere, solo con un chiaro richiamo all’arte greca (e al simbolo dell’organo genitale maschile); i muri, una chiusura verso un orizzonte più ampio, inconoscibile (pensiamo al treno che corre al di là del nostro orizzonte prospettico), le grandi piazze vuote ma affollate di presenze, sono esattamente ciò che appaiono.La superficie del quadro, inoltre, è finta, gli elementi raffigurati sono tutti evidentemente disegnati, tutti partecipi della loro realtà enigmatica.

In uno dei primi quadri metafisici, ancora imbevuti dell’arte tedesca (in particolare Kaspar Friedrich) troviamo da una parte la rappresentazione di Apollo tramite il suo sacerdote e dall’altra (dietro una tenda, come il muro elemento che limita la nostra conoscenza) la Pizia vaticinante. Il messaggio sembra chiaro: noi non possiamo conoscere il nostro futuro e il poeta non può far altro che limitarsi a guardare l’orizzonte e poi cercare di descrivercelo.
Un caso singolare è ancora quello del Ritratto di Guillaume Apollinaire (1914) in cui, forse, oltre ad una rielaborata riproduzione dell’Apollo del Belvedere (stempiato e con gli occhiali da sole, di nuovo simbolo-limite) compare il profilo dantesco (invero molto inquietante) in cui il poeta francese, tra i primi grandi estimatori di De Chirico, si è voluto riconoscere. Nella fase conclusiva il poeta perde le fattezze storiche ora di uno, ora dell’altro personaggio, per diventare uno strumento della realtà: il Manichino.
Si, De Chirico è rimasto molto per i suoi manichini, spesso delle accozzaglie di oggetti che non fanno altro che aumentare quel senso di misteriosa enigmaticità che aleggia sempre nei suoi paesaggi.
Ma i manichini vengono dopo, appartengono alla fase conclusiva della Metafisica (ma non per questo sono meno importanti), segnano il passaggio al momento successivo, ad una nuova esperienza intellettuale ancora saldamente ancorata a quella vecchia.
Sono un altro enigma.