Il Dizionario dei Chazari di Milorad Pavić: un libro geniale e maledetto

Dizionario dei Chazari Milorad Pavic

«L’autore odierno di questo libro assicura al lettore che se lo legge non dovrà morire, come accadde al suo predecessore che usò l’edizione del Dizionario dei Chazari del 1691».

Inizia così il romanzo-lexicon in 100.000 parole che Milorad Pavić, uno dei più famosi e acclamati scrittori serbi, scrisse nel 1988. Un dizionario di tutto quello che si sa, si crede, si vocifera e si immagina sul popolo dei chazari, realmente esistito ma scomparso alla fine del X secolo senza lasciare tracce.

Con la nuova traduzione di Alice Parmeggiani e nella splendida grafica dell’edizione Voland, che a settembre 2020 l’ha riportato in libreria, si ha la sensazione di avere tra le mani un libro maledetto, che a ogni apertura incanterà con voce di sirena o sputerà fuoco, vomiterà anatemi irripetibili o evocherà spiriti maligni. Completano il quadro splendide iscrizioni ebraiche, diteggiature del Demonio, ritratti di monaci e riproduzioni di pagine e copertine della fantomatica edizione originale.

Il Dizionario dei Chazari è una summa semi fantastica della storia di un popolo, i chazari; dei partecipanti alla polemica chazara, evento cardine del libro con cui il kagan avrebbe deciso a che religione convertirsi; dei suoi cronisti e di altri personaggi, reali e fittizi, che nella storia si sono interessati a questa insolvibile questione; ma è anche e soprattutto la storia del libro stesso, quello che il lettore tiene tra le mani e sfoglia come attratto da un profumo irresistibile.

Pavić, fin da subito, nasconde i fili da burattinaio e si presenta solo come integratore di un originale del Dizionario pubblicato nel 1691. Un monaco serbo, Teoktist di Nikolje, dettò all’editore polacco Daubmannus, dopo averli accuratamente imparati a memoria in alfabeti a lui oscuri, tutti e tre i libri di cui è composto il Dizionario: quello cristiano (rosso), islamico (verde) ed ebraico (giallo). Delle cinquecento copie stampate dal Daubmannus se ne salvarono solo due, chiuse da lucchetti d’oro e d’argento e dalle pagine intrise di veleno – l’ardito lettore che osasse leggerle moriva a pagina nove, sulla frase verbum caro factum est.

Dizionario dei chazari Milorad Pavic
Photo: Eleonora Sacco

Nel caos apparente del Dizionario – se a questo punto della recensione il quadro non vi è ancora molto chiaro, è tutto regolare – c’è in realtà una geometria precisa e meccanica, che permette a chi legge di navigare il libro sulla rotta che preferisce. Lo stesso Pavić, nella premessa, invita a decostruire il processo di lettura, a rendersi parte integrante dell’opera decidendo che uso farne. Essendo un vero e proprio dizionario, organizzato per voci, si può leggere letteralmente come si preferisce: come un libro normale, da destra a sinistra, diagonalmente, o per triadi.

La triade è infatti una delle tante, forse infinite, chiavi di lettura del libro. Le moltissime vicende che si affastellano sono in realtà diversi livelli triangolari (il triangolo, d’altronde, è il simbolo dei chazari) della stessa storia che dal VII secolo non abbandona questo misterioso popolo turcico.

Tre erano i partecipanti alla polemica chazara, evento centrale narrato nel Dizionario: un monaco greco, un derviscio musulmano e un rabbino ebreo; tre i cronisti della polemica, uno per ciascuna religione; tre gli studiosi della questione chazara nel XVII secolo, cacciatori di sogni dalle affascinanti e incredibili avventure, che finiscono per incontrarsi su un polveroso campo di battaglia in Valacchia; tre sono le figure demoniache, una per ciascun inferno, che interferiscono con le loro storie; e infine tre sono gli studiosi contemporanei, ossessionati dai chazari, che si ritroveranno nel 1982 a Istanbul per un convegno, finendo coinvolti in un inspiegabile omicidio.

Affascinante e disorientante allo stesso tempo, Pavić fa vacillare, iniettando grosse dosi di fantastico alle cronache storiche, i punti cardinali della storia e della geografia su cui si fonda la nostra civiltà. Racconta che i chazari furono un popolo realmente esistito, una congregazione di tribù nomadi di lingua turcica, stabilitosi tra il VII e il X secolo nelle sconfinate steppe dell’odierna Russia meridionale, tra Mar Nero e Mar Caspio. Il loro stato confinava con la Bulgaria del Volga a Est, con l’Azerbaigian e l’Impero Bizantino a Sud, con la Rus’ di Kiev a Ovest. Era così reale che tutt’ora, in lingua azera, il Mar Caspio si chiama Xəzər dənizi, il mare dei chazari.

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Photo: Eleonora Sacco

La loro capitale era una città forse posta sulla foce del possente Volga, poi rasa al suolo nel 943 dal principe Svjatoslav’ di Kiev. Molti cronisti dell’epoca concordano sul fatto che i chazari si convertirono all’ebraismo: ad oggi, non ci sono evidenze archeologiche certe di questa conversione, la stessa capitale chazara non è ancora stata individuata. Più verosimilmente, la Chazaria fu uno stato multiconfessionale, dove, sul tengrismo preesistente, si crearono comunità cristiane, islamiche ed ebraiche. In ogni caso, Pavić narra tutto e il contrario di tutto, e secondo ciascun cronista dei tre libri del Dizionario (Metodio, al-Bakri e Halevi), dopo la polemica, il kagan scelse la religione a cui apparteneva il cronista.

«Durante il dibattito condotto nel sontuoso palazzo del kagan, la terra chazara si mise a camminare. Era tutta in movimento. […] Un testimone vide una folla di persone che portavano enormi pietre e chiedevano: dove dobbiamo deporle? Erano le pietre di confine del regno chazaro, che segnavano le loro frontiere».

Nella polemica, il kagan chazaro convocò alla sua corte tre esponenti delle tre grandi religioni, chiedendo l’interpretazione di un sogno, che avrebbe determinato la sua conversione e quindi quella del suo popolo. Per il mondo cristiano, fu mandato Costantino di Tessalonica, alla storia noto come Cirillo, padre assieme al fratello Metodio del primo alfabeto per gli slavi, il glagolitico; per l’islam, un misterioso derviscio musulmano, Farabi Ibn Kora; per l’ebraismo, Isaak Sangari, rabbino e grandissimo esperto di cabala, poliglotta e sostenitore dell’importanza e superiorità della lingua ebraica.

«Ma il momento decisivo, simile alla pietra che divide le acque di uno stesso torrente e le fa sfociare in due mari, fu l’incontro con una donna».

Dalla conversione dei chazari, nella storia, sono sbocciate diverse teorie, arrivate fino ai giorni nostri. Alcune sconfinano nella leggenda e non hanno mai trovato un sicuro riscontro archeologico: a Čelarevo, nei pressi di Novi Sad in Serbia, sono state rinvenute lapidi con incise menorah. Testimonianze dell’epoca parlano di chazari insediatisi in Europa orientale, o avvistati a Toledo; l’ipotetica discendenza dai chazari degli ebrei aschenaziti, dei caraimi, degli ebrei di Buchara o di quelli di montagna del Caucaso.

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Photo: Eleonora Sacco

Pavić arricchisce alcune biografie storiche con personaggi demoniaci, sanguinari condottieri, cronisti medievali ed ebrei erranti. Le voci sono perlopiù brevi biografie, ma non mancano descrizioni assurde: dai ku, i disgustosi frutti autoctoni ricoperti di squame di pesce che crescono solo in Chazaria, con un nocciolo che pulsa come un cuore e un gusto «freddo e salato», alle palpebre dipinte con lettere che uccidono della principessa Ateh, personaggio eterno e trasversale, che interseca tutti i livelli di narrazione. E ancora contratti di fidanzamento, lettere di una slavista spedite alla sé stessa che viveva in Polonia anni prima, muratori di musica della Chazaria. Questi ultimi scolpivano enormi blocchi di marmo salino sulle vie dei venti, perché suonassero al passare delle grandi masse d’aria stagionali, producendo melodie celestiali che il popolo correva ad ascoltare per sceglierne la migliore.

In un regno a cavallo di due mondi, ibrido come pochi altri nella storia, personaggi eccentrici da tutte le epoche si rincorrono in quello che, visto da fuori, è un destino prestabilito, destinato a ripetersi. Il Dizionario dei Chazari racconta l’insensata e mortifera ricerca della verità. Ma racconta anche una cultura inafferrabile, sdoppiata da occhi astigmatici, filtrata dalle lenti deformanti di ciascuna religione, che in fondo narra sé stessa per sé stessa, o è condannata a narrare solo un terzo della verità e a rimanere cieca per le parti rimanenti. Il fortunato lettore di una copia non avvelenata del Dizionario ha la propria occasione di provare a ricostruire la sua verità, tutta intera, attingendo a tutte le fonti disponibili.

«La verità è trasparente e non si nota, mentre la menzogna è opaca, non lascia passare la luce o lo sguardo».

La geografia di Pavić è fluida e densa come nelle grandi navigazioni e pellegrinaggi medievali. Sontuose capitali del mondo antico e piccoli paesini serbi si equivalgono, nel momento in cui ogni avvenimento è finalizzato alla ricostruzione della verità e converge verso il centro del triangolo, perché le tre visioni del mondo arrivino a sfiorarsi, per poi respingersi, come in un’esplosione in cui i pezzi vengono dispersi nei più remoti angoli del globo. Finché, secoli dopo, non toccherà a una nuova triade cercare di ricomporli. Ogni personaggio è protagonista di viaggi per immensi spazi silenziosi, dalle indefinite steppe dei chazari, ai vicoli lastricati di Dubrovnik; dalla piovosa Cracovia ebraica all’afa del Cairo, dalla Tessalonica di Cirillo e Metodio alle grandi piane danubiane, teatro di mescolanze genetiche ed epici scontri tra civiltà.

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Photo: Eleonora Sacco

«Ora erano soli; si sentivano le vespe selvatiche che affilavano i pungiglioni sulla scorza secca di un albero».

Il Dizionario dei Chazari è un libro estremamente complesso, ricchissimo, immaginifico, dall’architettura semplicemente geniale. Va approcciato con cautela, letto a piccoli assaggi, perché rischia di sopraffare o di risultare eccessivo, criptico, faticoso. Pavić è un demiurgo senza freni: rivolta il prevedibile con dettagli ora poetici, ora raccapriccianti, smentisce, contraddice, mente spudoratamente, lusinga, evoca e spazza via all’improvviso immagini grandiose.

Più si procede nella lettura, più le poche certezze che si avevano sul popolo dei chazari rivelano fondamenta fragili, pronte a collare. Ogni pagina contraddice la precedente e Pavić ha solo interesse ad alimentare il senso di straniamento che si prova a non avere più alcuna certezza. Crea entropia, aggiunge dettagli fantastici, usanze assurde, situazioni così logicamente complicate da lasciare la mente affaticata, a un passo dal delirio. Come se la steppa non potesse essere catalogata, e popoli la cui origine, lingua e religione cozzano tra loro non potessero poi realmente esistere. Pavić depista, fa il gioco del suo stesso libro, perché sa che c’è un segreto, nel mondo chazaro, che non è per tutti, non va studiato perché non potremmo capire. Ma più la verità si allontana dai chazari, più questo popolo si rende attraente. Più la realtà del loro mondo si fa assurda, più scivola via l’esigenza di separare il reale dal fantastico.

La cosa interessante è, per chi vorrà spingersi oltre, andare a fare qualche ricerca su testi scientifici per verificare cosa è realtà e cosa finzione nelle pagine del Dizionario dei Chazari. Con sorpresa, anch’io ho scoperto che i fatti, i personaggi e le biografie reali fossero più di quelle che pensavo.

Tirare le fila e ragionare su cosa si è letto non è un lavoro da poco. Perdersi nel labirinto e abbandonare il libro a metà strada credo sia comune e comprensibile. Pavić ha pensato anche a questo, fornendo tutti gli strumenti utili da cui partire per la lettura e la propria interpretazione, con una premessa, due appendici e una nota finale sull’utilità del libro. Tra le altre cose, viene rivelato il perché dell’esistenza di una copia femminile e una copia maschile, due varianti distinte, che differiscono solo per un brevissimo paragrafo.

DIzionario dei Chazari Milorad Pavic
Photo: Eleonora Sacco

Il Dizionario dei Chazari è una fonte straordinaria di ispirazione per ogni mente creativa, ogni amante della storia e della geografia, dell’esoterismo, della storia delle religioni, ma anche per chi vuole sperimentare una lettura attiva e strategica.

«Allora si muoverà attraverso il libro come attraverso una foresta, di segno in segno, orientandosi con l’aiuto delle stelle, della luna e della croce. Un’altra volta leggerà il libro come lo sparviero, che vola solo di giovedì, ma può anche riordinarlo in infiniti modi, come il cubo di Rubik».

Cercando le linee di confine di quel regno su un atlante di storia medievale, osservandole contrarsi e dilatarsi di decennio in decennio, a seguito di campagne, battaglie, assedi e sconfitte, mi è tornato in mente un luogo molto lontano – in termini di chilometri – dalla Chazaria, ma incredibilmente vicino.

È il Tempio di tutte le religioni, alle porte della città tatara di Kazan’, capitale della Repubblica del Tatarstan, Federazione russa. Un luogo incompleto, maestoso e in decadenza, spentosi un po’ insieme al suo visionario fondatore, Ildar Chanov (1940 – 2013). Il tempio, un complesso eclettico che unisce simboli, immagini, stili e architetture da sedici religioni del mondo, funge da centro culturale e sociale e non da luogo di culto. È ora in gestione al fratello di Ildar, ma all’ingresso una cassetta per le donazioni dice: «per l’eterna costruzione».

Se della Chazaria non rimane traccia, di luoghi impossibili da catalogare e di cattedrali in mezzo alle steppe ce ne sono ancora e sono raggiungibili con le nostre gambe, quando apriranno i confini. E anche se «dalla verità non si può ottenere più di quanto vi abbiate messo», una cosa certa e vera si può dire di questo libro: qualunque strada imboccherete, sarà straordinaria.

 


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Eleonora Sacco
Eleonora Sacco

Viaggiatrice, autrice e podcaster, dal 2015 scrivo su painderoute.it, che oggi è il mio lavoro. Dopo un erasmus a Mosca ho capito che non potevo più tornare indietro. Così sono finita sulla Transiberiana, sull'isola di Sachalin, in Caucaso, nel Pamir e in tutti quei posti là. Ho una laurea magistrale in Linguistica e sono prevedibilmente nerd di lingue, alfabeti assurdi, tisane e intrugli, montagne e canto polifonico. Sogno della vita: diventare una babuška sovietica (scherzo, eh).