«Papà, spiegami allora a che serve la storia». Iniziava così, con questa domanda indiretta, la serie di appunti scritti durante la guerra da Marc Bloch, poi editati sotto il titolo di Apologia della storia o Mestiere di storico.
In fondo, ogni lavoro scientifico, non può fare a meno di prendere le mosse da una domanda. Più o meno radicale possa sembrare, che si stia parlando di fisica, di chimica, di filologia, filosofia o persino di arte (sullo statuto epistemologico dell’arte ci sarebbe da aprire una parentesi infinita e lascio volentieri l’arduo compito a persone più preparate e colte di me…), più o meno profonda possa essere, la forma dell’interrogazione è ciò che caratterizza tutti i lavori di un certo spessore culturale.
A voler guardare solo la storia della filosofia, si potrebbe addirittura dire che questa strana disciplina nacque quando quel tipo, strano e un po’ barbuto (e non sto parlando di Marx…), iniziò a girare per Atene chiedendo «Ti estì?»: «Che cos’è?». Che cos’è il giusto? Che cos’è il vero? Che cos’è l’amore? Che cos’è la vita?
Certo, si potrebbe obiettare che non fece una grande fine a continuare a chiedere «Ti estì?» ai laboriosi cittadini ellenici. Ma in questo modo si perderebbe il senso della questione: l’esigenza del sapere e la disponibilità a mettere in dubbio ciò che ci appare tanto ovvio sono connaturate all’uomo come il respirare o il bere (e non a caso si parla di “sete di conoscenza”).
Inizieremo perciò una serie di articoli sui problemi della conoscenza proprio da questa domanda: che cos’è conoscere?
Innanzitutto una precisazione. Questo non è il tentativo – già sperimentato – di ripercorrere una parte della storia della filosofia. Non è nemmeno un perfezionamento o ampliamento del lavoro già fatto e non varrebbe a oltrepassare i limiti connaturati a un discorso divulgativo. No, la ratio di questo ciclo risiede unicamente nella domanda.

È, in altre parole, il tentativo di rendere problematica un’intuizione che sembra tanto ovvia attorno ad un tema che ci sembra tanto familiare. In fondo, chiunque di noi almeno una volta nella vita ha affermato di conoscere o di sapere questo o quello. «Conosco Tizio, è un bravo ragazzo…», «Lo so che non è colpa tua, però cosa posso farci…», «Ma lo sai che domani danno neve?»
Quale che sia il contesto, la circostanza, la questione, le parole “conoscere” e “sapere” occupano uno spazio estremamente rilevante nei nostri discorsi. Ma cosa intendiamo esattamente con questi termini?
Non sembra un gran problema. Istintivamente siamo portati a rispondere che noi conosciamo o sappiamo una cosa se crediamo che quella cosa è vera e abbiamo buone ragioni per crederlo. Io so che fuori piove se fuori piove, io credo che fuori piove e ho buone ragioni per credere che fuori piove. Il ragionamento fila.
Questa definizione di “conoscenza” è stata tradizionalmente definita come “tripartita”. La ragione è evidente: sono tre gli elementi che compongono la definizione:
S sa che P se e solo se:
1) S crede che P
2) P è vero
3) S ha buone ragioni per credere che P
Cosa si intenda esattamente per “avere buone ragioni” è un problema discusso ma non mi ci voglio addentrare. Restiamo alla “definizione tripartita” di conoscenza.

Ora, nel 1963 un tale di nome Edmund Gettier pubblicò un brevissimo articolo – tre pagine appena. Fu come lanciare un macigno in una pozzanghera. Che cosa scriveva Gettier? Faceva due semplici e micidiali controesempi a questa definizione. Per amore di sintesi ne riassumo il primo.
Immaginiamo che Smith e Jones facciano un colloquio di lavoro. Supponiamo che il capo, dieci minuti prima del colloquio, dica a Smith che sarà Jones ad ottenere il lavoro. Supponiamo anche che Smith, frugando nelle tasche di Jones abbia trovato dieci monete. Sarà del tutto legittimato concludere che l’uomo con dieci monete in tasca avrà il lavoro. Questa è, per lui, una forma conoscenza. In effetti sono rispettate le tre condizioni di cui sopra:
1) Smith crede che l’uomo con dieci monete in tasca avrà il lavoro
2) È vero che l’uomo con dieci monete in tasca avrà il lavoro
3) Smith ha buone ragioni per credere che l’uomo con dieci monete in tasca avrà il lavoro
Immaginiamo, dice Gettier, che per un qualche strano rivolgimento della vita sia Smith (e non Jones) a ottenere il posto di lavoro. E immaginiamo anche che Smith, senza che lui lo sappia, abbia dieci monete in tasca. Ora, in questa situazione rimarrebbe vero che “l’uomo con dieci monete in tasca avrà il lavoro” però nessuno sarebbe disposto ad affermare che la credenza di Smith sia una forma di conoscenza.
Perché?
Di fondo perché la credenza di Smith è falsa.
Eh già. Cercheremo di capire perché nel prossimo articolo.