La tentazione di cambiare il titolo che vedete qui sopra con “Annichilire il rabarbaro” è rimasta fortissima per tutta la stesura dell’articolo odierno.
Oh beh.
Bentornati, amiche e amici letterati, a Balloons, che col numero odierno interrompe, almeno per ora, il format Nome dell’opera: quando la trasposizione filmica diventa… Caratteristica propria della trasposizione filmica. Siate consci del fatto che questo s/conosciuto potrebbe in qualsiasi momento bussare alla nostra porta e sbatterci prepotentemente in faccia la dura, fredda copertina di plastica del film di turno, lamentando vuoi la qualità scadente della stessa, vuoi la scabrosa mancanza di peni a schermo (sì, sto guardando te, Frank Miller).
L’argomento di oggi, volendo restare nell’ambito di quelle che definirei “aspiranti opere d’arte snobbate dalla società benpensante (la quale tuttavia sembra avere un’ossessione per i peni superiore a quella delle accusate)” (sì, sto guardando te, David di Donatello), non riguarderà soltanto il fumetto, fratello malvoluto del libro scritto, ma tirerà in ballo il videogioco, cugino dell’arte cinematografica da non invitare alle feste. In particolare, andremo a illustrare quale sia il “figlio deforme” nato dall’unione tra questi due paria del panorama artistico di oggi: il cel shading.
…
Posso percepire il silenzio perplesso della gran parte di voi amici a casa dalla mia sedia.
Il cel shading è una tecnica di raffigurazione digitale che consiste, tramite tecniche ignote persino agli esperti del campo, nel dare alle immagini un aspetto che sia il più simile possibile a quello del disegno, allontanandole dalla rappresentazione realistica perseguita da gran parte delle produzioni di oggi per avvicinarle tanto al fumetto quanto all’animazione.
Per dirla breve, in ambito videoludico questa tendenza dà vita a fumetti/cartoni animati giocabili, che trasformano l’utente da mero spettatore ad artefice della vicenda.
Un fumetto… da giocare?! Caspita, dev’essere il sogno di chiunque!
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“Il vostro autore è circondato da un silenzio imbarazzante, mentre un tumbleweed (arbusto rotolante americano, in italiano “rotolacampo “, appartenente al genere Salsola[1] attraversa lo sfondo con disarmante lentezza, sospinto da una brezza leggera.”
Scettici.
Non sorprende che la possibilità di trasformare (per quanto non alla perfezione, questo va da sé) l’immagine bidimensionale cartacea in un’immagine tridimensionale passibile di interazione sia stata colta, in primo luogo, per dare vita a trasposizioni videoludiche (degne di una serie di articoli a sé? Mah) di opere grafiche di successo. Si ricordi, a questo proposito, l’industria nipponica, sempre impegnata a tradurre gli shōnen del caso in videogiochi che ne rispecchino il più possibile lo stile, talvolta a fronte di un gameplay piatto e ripetitivo, valorizzato solo da setting e personaggi. Un buon connubio tra “qualità di stile” e “qualità di gioco” è stato raggiunto con la miriade di giochi dedicati a Naruto, nei quali il ninja dalle fattezze teutoniche e dalla tuta ignorante corre, salta, batte i cattivi di turno con tecniche sempre più mirabolanti e sempre meno furtive e si impegna in tutta una serie di attività che diano al giocatore l’impressione di trovarsi nel fumetto creato da Masashi Kishimoto.
Non che in occidente il cel shading non abbia avuto i suoi momenti; così come non si può dire che ogni opera partorita in questo stile disponga di basi inchiostrate. Dal canto mio, trovo piuttosto strano che a volersi avvicinare a una grafica il più “artistica” possibile (sempre dal punto di vista delle arti figurative tradizionali, e nulla volendo togliere alla tensione verso una rappresentazione ogni anno più realistica) siano stati diversi esponenti del genere sparattutto/FPS, da molti considerato il più “testone” tra i brand di videogiochi. Eppure, devo constatare con piacere, esemplari come Borderlands o Call of Juarez: Gunslinger possono annoverarsi tra giochi non solo divertenti, ma anche gradevoli esteticamente in una maniera tutta loro.

L’effetto cel shading applicato a Naruto, con varie tipologie di illuminazione. Notare come il tutto non influenzi neanche minimamente la sua espressione allucinata.
I giochi, o meglio, le tipologie di gioco finora elencate, “soffrono” tutte di un medesimo “difetto”[2]: quello, nella necessità del medium videoludico di rendersi avvincente, divertente e di una durata considerevole, di “contaminare” la storia narrata con il gameplay, con fasi esplorative prive del pathos di una pagina inchiostrata o con orde interminabili di nemici che andranno tutti al tappeto nella stessa maniera, rallentando lo svolgimento delle vicende. Come raggiungere, quindi, la perfetta simbiosi fumetto/videogioco?
A rispondere a questa domanda ha provveduto in più e più occasioni la casa di produzione Telltale Games, alla quale si deve il ritorno in voga di un genere che i “veterani” degli anni ’80 e ’90 potranno ricordare con affetto: l’avventura grafica. Giochi come Back to the Future, The Walking Dead e The Wolf Among Us fanno della storia il centro nevralgico dell’opera videoludica, permettendoci di immergerci al suo interno come se stessimo aprendo una graphic novel, ma consegnando le redini della vicenda nelle nostre mani.
Commetterei un torto se, avviandomi alla fine del mio articolo, non facessi menzione dell’applicazione del cel shading a medium diversi da quello videoludico: uno splendido film animato come L’arte della felicità, produzione nostrana del 2013 diretta dal debuttante Alessandro Rak, dimostra appieno le possibilità narrative ed emotive di questa tipologia grafica, mentre nel disturbante (e sconsigliato ai minori) cortometraggio The Backwater Gospel, della danese Animation Workshop, troviamo esplicate le potenzialità brutali e gore di questa forma artistica apparentemente pacata e innocente.
Chiudo.