Il jazz di Claudio Angeleri e il Castello dei destini incrociati

italocalvino

A volte capitano degli incroci inaspettati: il jazz e Italo Calvino, la musica di Claudio Angeleri e il medioevo. Ecco, il medioevo, Di tutte le epoche passate il medioevo è forse quella che ci lascia il senso di un altrove perduto e indeterminato in cui ogni incrocio è possibile, ogni intreccio di persone, di luoghi disparati, in cui il prodigio si mescola alla realtà. Ben poco accomuna infatti la civiltà vichinga con l’Italia dei comuni, o la Francia di Giovanna d’Arco: ma chiamiamo tutto questo “medioevo”, e la parola ci suscita un immaginario cavalleresco di giostre e tornei, e paladini valorosi, e strade e cantastorie, e uomini che giocano a scacchi con la morte.

È la stessa cultura medievale a costruire un’autorappresentazione fantastica della sua contemporaneità, come la Chanson de Roland, il ciclo bretone, le opere di Chrétien de Troyes, la saga dei Nibelunghi; eppure è soprattutto nel momento in cui il medioevo scompare, evapora, che inizia veramente a prendere forma. È la cultura tardo quattrocentesca e cinquecentesca a costruire quel mondo fiabesco che ci attrae così fortemente, riprendendo la tecnica dell’entrelecement, con cui erano costruiti gli antichi poemi, intrecciando racconti e storie le une sulle altre, e nello stesso tempo dando ai personaggi, alle vicende, uno spessore del tutto moderno. E forse per questo un autore proteiforme e versatile come Italo Calvino poteva amare l’Ariosto e i paladini del suo poema: sono la rappresentazione plastica di un mondo aperto e volubile, in cui le storie si accumulano alle storie.

Se poi le vicende dell’Ariosto vengono a incrociarsi con un altro prodotto dell’autunno del medioevo, i Tarocchi, ecco che nasce un’opera come Il castello dei destini incrociati, che raccoglie insieme tutta l’idea del fantastico e insieme una tecnica narrativa davvero medievale: il raccontare per progressione di immagini, per quadri. Come nel Decameron o nei Racconti di Canterbury vediamo delle persone, riunite per qualche frangente in un luogo chiuso, che si raccontano storie tra loro. Stavolta, però, per un incantesimo hanno perso la parola, e possono comunicare solo attraverso i tarocchi, che vengono disposti sulla scena da ogni personaggio, creando così una mappa in cui tutte le storie sono legate tra loro: una rappresentazione visiva dell’entrelecement medievale, o, anzi, una sorta di mandala, di realizzazione visuale della continua connessione tra le cose.

Claudio Angeleri
Claudio Angeleri

Ed ecco che arriviamo all’ultimo incrocio: quello tra il Castello dei destini incrociati e il jazz di Claudio Angeleri.  Compositore e pianista, Claudio Angeleri ha lavorato a lungo su Calvino, di cui è un lettore assiduo, e nel 2004 aveva già realizzato Musica delle città invisibili. Questa volta si è confrontato con l’opera meno romanzesca, meno moderna di Calvino, ed eppure la più post-moderna, interattiva, in cui sono i tarocchi a raccontare le storie, e le storie si intrecciano tra di loro. Ne è nato un  continuo confronto tra musica e parola, che ha dato origine a un’opera musicale particolarissima nel suo genere, grazie alla sua Orchestra Tascabile, composta da Oreste Castagna (attore), Giulio Visibelli (flauti e sax soprano) Paola Milzani (voce) Marco Esposito (basso elettrico) Virginia Sutera (violino) Luca Bongiovanni (batteria e percussioni) Michele Gentilini  (chitarre acustiche ed elettriche).  

Grazie ad alcuni membri dell’orchestra, abbiamo avuto la possibilità di parlargli, e gli abbiamo chiesto cosa rappresenti per lui Calvino:

«Calvino è in grado di parlare di cose complessissime in modo molto semplice, è questa la sua grandezza. Se uno pensa alle Fiabe, al Castello dei destini incrociati, la trilogia… forse la più complessa sono Le città invisibili, molto più filosofica. Lavorando sulle due opere ho adottato due approcci diversi. Nelle Città invisibili ho lavorato sulla fusione tra la musica e il testo: il testo era inserito direttamente nella partitura. Qui invece ho adottato tecnica combinatoria di Calvino, assemblando parti con solamente testuali e parti solamente musicali, affiancandole. In questo modo l’ascoltatore non è distratto dal testo e dalla musica, e si concentra sul messaggio: ascolta il testo, e poi la sua traduzione in musica, diciamo.

Il tentativo era proprio di tradurre musicalmente il testo, cercando di dare delle suggestioni musicali. Ho usato quindi diverse tecniche compositive: il contrappunto, il jazz, il blues, ma anche parti dodecafoniche. Allo stesso tempo ho dato a ogni strumento le caratteristiche dei personaggi: il violino rappresentava l’aspetto più fantastico, il basso quello più razionale. E poi lavorando sul ritmo della parola. In questo caso dovevamo essere il più possibile descrittivi, cercare di raccontare storie».

Per Angeleri infatti il rapporto di comunicazione col pubblico è fondamentale, e si riconosce pienamente nella poetica di Calvino, per cui l’autore non deve mai perdere di vista il messaggio, e non ridursi a puro linguaggio. Nello stesso tempo, però, l’atto creativo non è qualcosa di completamente progettuale, da realizzare a tavolino.

Dice infatti: «La composizione è un processo psicoanalitico, in cui vado a ricercare dentro di me emozioni che possono essere trasformate in musica. È la ricerca dentro di me che dà origine a una forma. Nello scrivere mi sono lasciato condurre dalla melodia, leggendo il testo di Calvino e rileggendolo. Io direi che la composizione è un’improvvisazione lenta, e la l’improvvisazione jazzistica è una composizione istantanea. È un lasciarsi condurre».

E in questo senso la scrittura di Calvino calza perfettamente con l’operazione di Angeleri, polimorfa, jazzistica, fortemente improntata all’espressività di ogni elemento: «Come scrive nelle Lezioni Americane, è la leggerezza che fluttua sul tempo. Che poi è il principio dello swing».

Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.