Come tutti i geni, anche Beethoven è un pescatore. Le sue note, come piccoli ami, portano alla luce dal mare profondo della mente passioni dai colori caldi, intensi ma a volte accuratamente sfumate, in modo da poterne vedere la profondità. Beethoven narra la vita. La sua, e di riflesso un po’ quella di tutti. Noiosa, la chiamano a volte la cosiddetta musica classica (al punto da essere relegata nelle soffitte). La sua musica non dà mai spazio alla noia, al già visto, al rivisto. Le piccole variazioni dei concerti, i grandi esperimenti, le famose sinfonie: la produzione di Beethoven è sterminata.
Qualcuno conoscerà la forza dell’Eroica, che inizia con quei due accordi sordi, secchi come il rumore di un pugno sul tavolo; l’utopia politica di Platone nel destino di un uomo, la virulenza della Storia e dei suoi protagonisti, come quelli delle Vite parallele di Plutarco. Oppure lo sconvolgimento di passioni che è la quinta sinfonia, il racconto degli anni bui, della vergogna di dire “parlate più forte” ai suoi interlocutori, il desiderio di una fine, qualunque essa sia, e allo stesso tempo la forza di un uomo che continua con tenacia a vivere e a regalare ad altri ciò di cui non può più usufruire.
Contemporaneamente compone un’opera diversissima, la pastorale, con quest’armonia serena e contemplativa. Il sublime non è un momento particolare della natura: è la natura stessa. La ricerca della natura, di qualcosa che possa far emergere la pace interiore dell’artista dal tormento lo porterà al celeberrimo capolavoro della nona. Ma vi è un mare di altre opere che nessuno conosce: qui è possibile nominare solo una goccia, come il viaggiatore quando mette nella sua borsa gli oggetti meno pesanti, lasciando indietro i più ingombranti, anche se di maggiore o uguale valore.

La Grande fuga (Große Fuge) è un quartetto di quelli poco conosciuti ma tanto importanti e sconvolgenti. Dopo un attacco strano ma tutto sommato nella norma, si sviluppa con frasi interrotte, spezzature che ricordano addirittura la Verklärte Nacht di Schömberg; in crescendo sviluppa una melodia quasi tradizionale, ma sempre singhiozzante, franta e disperata, totalmente espressionistica.
Già era stato criticato per l’apertura della quinta (quelle note celeberrime, riprese da Radio Londra durante la seconda guerra mondiale come un marchio di fabbrica), tutto un ripetersi delle stesse note. Ora aveva esagerato proprio. Originariamente doveva essere il finale un altro quartetto, la cosiddetta opera 130, e così venne presentata al primo concerto, il 21 marzo del 1826. Venne rifiutata al punto che Beethoven dovette scrivere un altro finale e pubblicare la Grande fuga a parte.
E, col senno di poi, in effetti è un’opera che ha poco a che fare con il quartetto da cui discendeva. È una delle prove della visionarietà di questo autore, mescolando tradizione ed esperimento, in modo mai dissonante (sarebbe troppo) eppure costruendo qualcosa di simile a quanto verrà poi prodotto all’inizio del Novecento. Il tutto in un’epoca ben legata al classicismo di Haydn. L’opera è il canto del cigno del compositore, che si spegnerà l’anno successivo. È un’operazione contraria e allo stesso tempo complementare a quella della nona; sono le passioni che ritornano, è una dimensione altra del suono, che a tratti fa quasi paura, come succederà poi a Ravel. E in questa tensione ritorna la grande speranza, quella di un Grande Uomo, di un’umanità nuova e forte, l’umanità dei Cesari e dei Catoni, l’umanità che descrive l’amato Plutarco. Un’umanità lontana, che forse ritornerà.