Incomincio rivelandovi un segreto: per quest’articolo avevo preso in considerazione i titoli “Polypea” e “Orfeo e Polypice” (e vi ho risparmiato le Polyporfosi, le Noctes Polypae, i Polypomena…).
Non sto scherzando.
Con un incipit del genere, avrò modo di dire qualsiasi cosa senza sembrare più idiota di quanto non sembri già ora, giusto? Nel caso ve lo stiate chiedendo, l’omissione del grassetto dall’articolo è voluta.
Asterios Polyp di David Mazzucchelli è un’opera tanto profonda e ricca di riferimenti tematici e culturali che sarebbe difficile abbracciarne l’essenza con un solo articolo. Questo, agli atti, spiega la presenza di tre diverse “recensioni” uscite da tre diverse bocche. Lo scopo? Offrire la massima esplorazione soggettiva di una materia così ricca e sfaccettata.

Avventura nel mondo del design, ricerca di una propria Weltanschauung[1] contro lo scetticismo, discesa in un’oltretomba di dei ed eroi greci che ancora sembrano gettare le loro ombre sul mondo, storia di vita vissuta. Asterios Polyp è tutto questo e molto altro.
Che nella mia esposizione venga abbracciato il filone ellenico ed ellenizzante non è scelta limitativa, bensì modesto, personale approccio a qualcosa che non si può ridurre a uno solo tra i suoi componenti.
Asterios si aggira per le tavole che lo riguardano di profilo, come un eroe dipinto greco, contrapponendo la sua pacata, apollinea perfezione formale al caos vitale e dionisiaco che lo circonda. E la storia si evolve intorno a lui, le vignette si impilano in atti di vita come uno dei suoi edifici mai realizzati, le divagazioni filosofiche diventano gli intarsi di un timpano che risulta già maestoso nella sua semplicità[2].

Il tutto nell’orma di quel dualismo dotto che “Sterio” ritiene sia alla base del mondo; dualismo che si riflette nella vita che si stende parallela alla sua, in quei video e in quell’occhio che si chiude. Metafora dell’estinzione della propria ombra, o forse del raggiungimento di un grado di percezione superiore: la percezione di un oracolo cieco che, riacquistata la vista, comprende che sulla viva terra ci sono cose più interessanti delle astratte trame degli dei.
In un mondo in cui si conosce tutto, in cui si è raggiunto il massimo progresso raggiungibile, l’uomo non può più cercare la conoscenza oltre le colonne d’Ercole, oltre confini già tracciati e seduti comodamente in attesa di qualcuno che sia un filo più audace della media. La ricerca si sposta all’interno, dentro ognuno di noi. Asterios è un Ulisse sazio di sapere, un avventuriero stagionato. Hana lo incontra già attempato, sopravvissuto ai naufragi, alle Calipso e alle Circi della sua vita come fossero stati sassolini sul selciato.
Il manto stracciato del mendicante rivela un completo con cravatta, un’atarassia di stoica memoria[3] e un ego incommensurabile. È solo mettendo in discussione sé stesso e le sue certezze, facendo nuovamente ritorno a Ilio saccheggiata e rasa al suolo, che l’uomo intraprende un ulteriore viaggio di conoscenza, non più teso a ciò che non si conosce, bensì all’esame di quanto si è ottenuto. L’Olimpo del sapere Arterios l’ha già raggiunto: si tratta, casomai, di riarredarlo, di lasciare che al suo interno entri anche qualcuno diverso da lui.