Armi da fuoco negli Stati Uniti: un mito del mondo germanico

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Agli occhi di noi europei appaiono pressoché incomprensibili la prevalenza e la diffusione delle armi da fuoco negli Stati Uniti d’America, nonché assurda la scelta di garantirne la proprietà privata quale diritto costituzionale. Nel migliore di casi, ci pare un residuo passatista dell’epoca della frontiera; nel peggiore lo riteniamo il segno di un comportamento tanto infantile quanto pericoloso, e l’ingiustificabile causa di tanta violenza. Tuttavia, questa incomprensibilità da parte nostra trova la sua origine in una serie di equivoci dei quali non siamo sempre a conoscenza. Questo fenomeno – che pure resta anacronistico e pericoloso – ha infatti per fondamenta profonde ragioni storiche e culturali, senza conoscere le quali non sarebbe possibile arrivare a comprendere il tenace radicamento delle armi da fuoco nello spirito americano.

Il primo equivoco trova la propria origine nella rappresentazione mediatica: l’immagine degli Stati Uniti che ci viene veicolata dal cinema e dalla televisione è infatti alquanto parziale e lacunosa, e questo ci fornisce una prospettiva distorta della cosiddetta America profonda. Per la maggior parte, la cultura pop sceglie come ambientazioni d’elezione le due coste e le grandi città, e gli stessi americani chiamano la vasta fascia continentale con il nome di fly over country, il “paese che si sorvola”, quello che non ospita nulla di rilevante ed è solo un intervallo geografico tra le aree nodali del New England e della California.

Invece, questa parte costituisce non solo la maggioranza del territorio degli Stati Uniti, ma esprime una cultura affatto differente da quella delle coste, al punto che molti studiosi arrivano a parlare di due Americhe contrapposte tra di loro e rilevano come la progressiva radicalizzazione politica degli ultimi anni, che proprio sul tema della regolamentazione delle armi ha trovato uno dei punti più dibattuti, abbia allargato ulteriormente questo divario.

Il secondo equivoco sorge sempre nell’ambito mediatico, ma è di segno inverso rispetto al precedente. La divisione del mondo in blocchi a seguito della Guerra Fredda ha portato a identificare sempre più la cultura occidentale in un blocco monolitico progressivamente uniformato al modello americano, complice l’egemonia culturale esercitata da prodotti di massa quali il cinema e i fumetti. Nonostante origini culturali comuni e una somiglianza derivante dalla vicinanza, non si deve dimenticare come nei tre secoli precedenti la cultura del mondo occidentale si era rappresentata ed autodefinita accogliendo questa divisione al proprio interno ed abbracciandola come descrizione: “Vecchio Mondo” e “Nuovo Mondo” non erano soltanto etichette vuote riferite alla successione dell’arrivo degli europei, ma simboleggiavano direttamente due modi divergenti e contrapposti di intendere il rapporto con la Storia, laddove l’Europa rivendicava la continuità con la propria tradizione ed il passato e l’America si presentava invece come orientata all’innovazione ed al futuro. Cultura americana e cultura europea erano quindi dissimili, e portate a costruire esiti alquanto divergenti dalle premesse a loro comuni nel nome di un diverso atteggiamento e di una diversa situazione sociale.

Charles Marion Russell, Lewis e Clark sul fiume Columbia, circa 1905, acquerello su carta,
Charles Marion Russell, Lewis e Clark sul fiume Columbia, circa 1905, acquerello su carta, Amon Carter Museum of American Arts, Fort Worth, Texas. Meriwether Lewis e William Clark furono incaricati dal presidente Jefferson di esplorare e mappare la regione continentale degli Stati Uniti, appena acquistata dalla Francia. Con l’aiuto delle loro guide native, Lewis e Clark furono i primi statunitensi a raggiungere la costa pacifica via terra, addentrandosi in un territorio pressoché inesplorato dagli europei.

Tenendo a mente le questioni qui presentate, possiamo dunque tentare di scrutare l’approccio americano alle armi da fuoco con una prospettiva più chiara e obiettiva, arrivando forse a ricostruire quali fattori ne abbiano consolidato la preponderanza e ne garantiscono ancora la diffusione. Procederemo così a ritroso nel mostrare le contingenze storiche in cui le armi da fuoco hanno trovato un terreno tanto prospero, e le idee che ne garantiscono sostentamento e permanenza anche col mutare di quelle contingenze.

I primi dati che richiedono il nostro esame provengono dalla geografia, e descrivono una condizione tuttora operante. Gli Stati Uniti sono il quarto paese al mondo per estensione, con 9.850.476 km² di superficie, e il terzo per popolazione, con circa 330 milioni di abitanti. Questi dati, all’apparenza armonici, non tengono conto di una distribuzione alquanto ineguale e asimmetrica: il solo stato del Texas, il secondo più grande dell’unione, potrebbe infatti ospitare comodamente al proprio interno tutti gli 8 miliardi di abitanti della popolazione mondiale, se solo la sua densità abitativa fosse pari a quella di New York City. La maggior parte degli Stati Uniti, sia in generale sia al proprio interno, si ritrova divisa in vaste zone rurali scarsamente popolate, al cui interno spiccano grandi città che concentrano la schiacciante maggioranza della popolazione.

Questo descrive sia l’unione nel suo complesso, ed è l’origine dell’espressione fly over country per distinguere le coste dall’entroterra, sia all’interno dei singoli stati, dove la maggior parte della popolazione si concentra nelle contee cittadine anche negli stati tradizionalmente rurali e spopolati dell’entroterra. Per contro, l’Unione Europea misura 4.423.147 km²di superficie ma ospita 447 milioni di abitanti, distribuiti con una densità ben maggiore. Risulta difficile a noi europei, specialmente a chi è nato e vissuto in città, cogliere appieno quanto la maggior parte degli Stati Uniti sia effettivamente vasta e vuota, di quanto siano grandi le distanze al loro interno e di come chi vive nei territori rurali si trovi effettivamente isolato dal mondo anche ai tempi delle comunicazioni di massa[1].

Benché l’isolamento sia ancora garantito dalle condizioni fisiche, bisogna riconoscere come il motore a scoppio prima, la telefonia, in particolar mobile, dopo ed infine Internet abbiano semplificato in maniera considerevole la possibilità di comunicare, spostarsi e mantenersi in collegamento anche nelle aree più periferiche. Questo però ci deve far riflettere su quanto di converso queste attività fossero difficili anche solo un secolo fa, per non parlare dell’epoca in cui quei territori furono esplorati e colonizzati dagli europei. Quando la fattoria dei tuoi vicini si trovava a qualche miglio di distanza, e la presenza più prossima dello Stato era un forte dell’esercito a tre giornate di cavallo, ogni pericolo ed ogni difficoltà doveva essere affrontata contando solamente sulle proprie forze, perché non c’era letteralmente nessuno che potesse venire in soccorso. Che si trattasse di animali feroci, banditi o indiani ostili[2] l’unica garanzia di poter sopravvivere nella frontiera era essere in grado di potersi difendere, e questo richiedeva l’utilizzo delle armi.

L’indipendenza americana: resistenza armata contro un potere nemico

Emanuel Leutze, Washington attraversa il Delaware, 1851, olio su tela, Metropolitan Museum of Art, New York
Emanuel Leutze, Washington attraversa il Delaware, 1851, olio su tela, Metropolitan Museum of Art, New York. Raffigurazione di uno degli episodi più celebri e mitizzati della guerra di indipendenza, insegnato fin nelle scuole elementari, il quadro illustra come l’Esercito Continentale non era composto da soldati di professione, ma da privati cittadini con i propri mezzi.

Tuttavia, contrariamente all’opinione comune, l’età della frontiera e la conquista del West non sono l’origine di questo fenomeno, ma ne vedono unicamente un affinamento. Il fascino di quest’epoca e il suo essere un mito-motore della cultura statunitense ne hanno accresciuto l’importanza, ma le ragioni fondative si annidano in un’epoca ancora precedente. E qui subentra un’ulteriore deformazione cui va incontro la nostra prospettiva europea: la nostra formazione scolastica – impegnata, anche giustamente, nel tentativo di ricostruire le complesse e talvolta ridondanti evoluzioni della Storia europea – tende infatti a trascurare la parallela vicenda americana, cui viene prestata attenzione unicamente in alcuni momenti nodali (le prime colonizzazioni, la guerra d’indipendenza, la guerra civile e il coinvolgimento nei conflitti mondiali) ignorando però i numerosi eventi intercorsi negli intervalli trascurati, fondamentali per costruire quel contesto che li determina. Occorre quindi illuminare alcuni episodi di cui il pubblico europeo spesso ha poca o nessuna cognizione, e soprattutto liberare quegli episodi invece conosciuti da etichette tanto familiari quanto inappropriate.

La nostra lente si deve quindi posare sulla guerra franco-indiana, che ci è più comunemente nota come guerra dei sette anni. Per il lettore non specialista, che probabilmente lo ricorderà solo come l’ultima grande guerra europea prima della Rivoluzione Francese, questo conflitto non sembrerà troppo diverso né particolarmente notabile rispetto ai suoi predecessori del XVIII secolo. Questa è precisamente una di quelle deformazioni prospettiche di cui vi avvertivo in precedenza: osservata dal giusto punto di vista, si rivela invece un fattore chiave nel preparare gli stravolgimenti dei decenni successivi. Possiamo concederci di trascurare l’andamento del teatro europeo, che fu in qualche misura secondario, e rilevare invece come numerosi teatri di guerra e gli esiti maggiormente importanti coinvolsero le colonie: a seguito di questa guerra infatti la Gran Bretagna estromise la Francia sia dall’India sia dal Nord America, annettendo ai propri domini i territori del Canada e della Louisiana, di estensione assai maggiore rispetto alle tredici colonie da loro fondate.

Questo trionfo sul campo di battaglia fu tuttavia pagato a caro prezzo, e richiese una mobilitazione di forze cospicua ed esigente: i britannici dovettero dispiegare sul campo ben 40.000 soldati dell’esercito regolare, affiancati a circa 17.000 miliziani delle colonie. Sono cifre considerevoli, e ancora più stupefacenti se teniamo conto del fatto che fin dalla sua origine il British Army abbia sempre avuto numeri assai inferiori a quelli che attribuiremmo ad una grande potenza: le statistiche da loro registrate riportano infatti come la media di arruolamento tra 1750 e 1800 sia oscillata tra i 78.000 e gli 80.000 uomini. Benché sorprendente ad un primo sguardo, ciò deriva dalla vocazione britannica, esercitata fin dalla prima età moderna, ad essere una potenza in primo luogo navale, attribuendo quindi alla flotta il compito di propagare la propria forza; l’esercito di terra diveniva così una forza principalmente professionale e volontaria, impiegata come corpo di precisione per conseguire obiettivi importanti e circoscritti.

L’impiego così massiccio delle truppe britanniche in Nord America non fu dirompente soltanto per il mero numero, ma anche per l’inedito impiego. Fino a quel momento, infatti, né il British Army né i suoi predecessori erano stati impiegati nelle colonie americane, che per un secolo e mezzo si erano rette in maniera pressoché autonoma ed autosufficiente[3].

John Trumbull, La resa dell'esercito inglese a Yorktown, nel 1781
John Trumbull, La resa di Lord Cornwallis, 1820, olio su tela, rotonda del Campidoglio degli Stati Uniti, Washington D.C. Nel 1781 la resa delle truppe del marchese Cornwallis, peraltro non presente sul campo, segnò la fine della battaglia di Yorktown e la vittoria americana contro la Gran Bretagna. Le ex-colonie inauguravano così un proprio percorso di separazione dal Vecchio Continente.

L’equilibrio fu spezzato dalle necessità della guerra franco-indiana, e la mobilitazione di truppe britanniche sul suolo americano fu sovvenzionata con un cospicuo aumento di tasse ed accise, fino ad allora pressoché nulle, da versare nei forzieri di Londra. La conseguente vittoria non fece altro che inasprire questo squilibrio, lasciando guarnigioni di soldati volte a presidiare un territorio che non aveva più nemici in grado di minacciarlo – i Francesi erano stati ricacciati, e le nazioni indiane non costituivano un pericolo per le colonie – le quali dovevano essere mantenute da una popolazione che non desiderava ospitarle, non ne aveva richiesto l’intervento, riteneva di farne a meno e che gli oneri di quella presenza non fossero ripagati dai corrispondenti diritti – qui ha origine il celebre motto no taxation without representation, “niente tasse senza rappresentanza”.

Si potrebbe credere ingenuamente che concedere quella rappresentanza, e garantire alle colonie seggi nel Parlamento di Westminster, avrebbe potuto disinnescare la guerra di indipendenza. Ma questo richiede di ignorare che le colonie non miravano a questo obiettivo, perché non avevano il minimo interesse ad essere coinvolti nelle questioni di Londra e dell’Europa: il loro desiderio era di badare ai propri affari, senza che potentati lontani e senza coinvolgimento imponessero obblighi per ragioni aliene alla situazione locale. I coloni riconoscevano nella madrepatria un signore distante, a cui si doveva certo obbedienza, ma al quale di contro si chiedeva unicamente di non intervenire.

Non è peraltro un caso che il New England, da cui sarebbe germogliato il primo embrione culturale dei futuri Stati Uniti, avesse avuto origine con la fondazione della colonia del Massachussets da parte dei Padri Pellegrini, un gruppo di puritani emigrati per poter vivere la propria fede difforme ed eterodossa senza venire perseguitati dal potere regio. Non solo quindi le colonie prestarono asilo a dissidenti religiosi, come i puritani od i quaccheri, ma anche a chi abbandonava la vecchia Europa per rifarsi una vita ricominciando da zero, lasciandosi alle spalle obblighi di natura feudale, e vedeva nella nuova terra una promessa di speranza dove il proprio destino sarebbe stato determinato unicamente dal proprio lavoro.

Il sentimento di sospetto e diffidenza nei confronti dello Stato non è stato creato da Ronald Reagan negli anni ‘80 del secolo scorso. Per quanto acuito, esso trova le sue fondamenta nel carattere originale delle colonie, fondate da abitanti che nel migliore dei casi non volevano avere niente a che fare con il Potere e chiedevano solo di essere lasciati in pace, e nel peggiore da quel Potere venivano perseguitati ed osteggiati. La traversata dell’Atlantico simboleggiava per quegli uomini una rottura netta con il passato, e la terra vergine ed inesplorata che si offriva loro concedeva un’occasione di ottenere prosperità e rispetto unicamente con la propria fatica. Anche questa è una delle ragioni alla base dell’individualismo americano e del suo sospetto per l’intervento pubblico: la narrazione del loro passato elogia chi si è costruito da sé, ha affrontato le difficoltà sul proprio cammino e le ha superate con le proprie forze, senza dipendere da altri.

Quando la Gran Bretagna si ritrovò costretta a dispiegare le proprie truppe nelle colonie, aveva di fronte una controparte che riteneva di potersi gestire da sé, come aveva fatto fino ad allora, e che nelle guarnigioni non vedeva un servizio od un’utilità, ma l’imposizione di un vincolo esterno e non richiesto. I soldati non erano uno strumento utile a mantenere pace ed ordine, ma la propaggine prossima di un potere distante, irraggiungibile ed impervio ad ogni richiesta, il mezzo di uno Stato tirannico e lontano per imporre costrizioni contrarie ai desideri dei cittadini.

John Trumbull, Dichiarazione d'Indipendenza
John Trumbull, La Dichiarazione di Indipendenza, 1819, olio su tela, rotonda del Campidoglio degli Stati Uniti, Washington D.C. Atto fondativo degli Stati Uniti e primo dei tre documenti che ne costituiscono la guida tanto giuridica quanto morale, la Dichiarazione di Indipendenza espone con precisione la concezione della cultura americana del governo come un potere estraneo ed ostile, da tenere sotto scacco per il benessere del popolo.

Ogni possibile effetto positivo della presenza dei soldati non era nulla che non fosse possibile conseguire con l’impegno del popolo riunito in milizia, ben capace di proteggersi da sé da ogni minaccia. Il portare le armi era così il mezzo con cui ogni uomo provvedeva a sé e alla propria famiglia, dai compiti quotidiani come la caccia alle situazioni straordinarie come la cattura di un fuorilegge. Ogni famiglia era armata, e doveva esserlo per sopravvivere ad un ambiente ancora poco antropizzato ed ostile. Non aveva quindi per loro alcun senso demandare ad un corpo esterno, indicato per l’occasione, il dovere di esercitare la difesa che tutti loro collettivamente già svolgevano, e di conseguenza lasciargli il possesso dei mezzi per esercitare quel dovere.

La narrazione intellettuale che vede la coscienza civile degli Stati Uniti nascere nella lotta contro la madrepatria inglese descrive l’indipendenza delle colonie come il trionfo delle libertà dei cittadini contro un potere statale remoto e malvagio desideroso di sottrargliela. I volontari armati sono il mezzo preciso con cui quella libertà venne difesa, e disarmarli il modo a disposizione del potere per sottrargliela. Gli Stati Uniti hanno quindi come orizzonte natale un antagonismo tra lo Stato e i cittadini, e hanno modellato le proprie istituzioni con lo scopo di impedire ad un potere malevolo di esercitare la propria tirannide. Ciò traspare fin dalla Dichiarazione d’indipendenza, fondamento ideale e manifesto dei valori statunitensi, in cui si proclama apertamente questo ribaltamento dei rapporti di forza:

Noi riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi diritti, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo […].

Quando una lunga serie di abusi e di malversazioni […] rivela il desiderio di ridurre gli uomini nell’assolutismo, allora è loro diritto, è loro dovere rovesciare un siffatto governo[4].

La Costituzione degli Stati Uniti è discretamente breve e semplice: comprende infatti soltanto sette articoli, che delineano unicamente il funzionamento dello Stato, la divisione dei suoi poteri nei vari organi e l’articolazione dell’amministrazione. La definizione dei diritti fondamentali garantiti dallo Stato fu lasciata al successivo Bill of Rights, la Carta dei Diritti approvata nel 1789 e ratificata nel 1791: sul modello del suo predecessore inglese di un secolo prima, vennero delineati quei diritti basilari e inalienabili che lo Stato non poteva modificare o ridurre, tesi a garantire la libertà dei cittadini e a impedire allo Stato di limitarne il godimento. Questa carta introdusse i primi dieci emendamenti alla Costituzione, il secondo dei quali sancisce:

A well regulated Militia, being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms, shall not be infringed.

Essendo necessaria, per la sicurezza di un libero Stato, una ben regolata Milizia, il diritto del popolo di tenere e portare armi, non sarà limitato[5].

Includere un tale diritto esplicitamente nella Costituzione, e inserirlo in mezzo agli altri diritti considerati inalienabili – la libertà di stampa, pensiero e religione, il diritto ad un giusto processo – dimostra come agli occhi dei Padri Fondatori era impensabile l’idea che un cittadino non potesse essere armato, e usare quelle stesse armi per la collettività era considerato un aspetto della partecipazione civica esattamente al pari di prendere parte ad una giuria o pagare le tasse.

Il mito del mondo germanico: uomini liberi e portatori di armi

Hans Dahl, Leif Erikson
Hans Dahl, Leif Erikson scopre l’America, olio su tela. La memoria di Leif Erikson è stata tradizionalmente coltivata dalle comunità di nord-europei trasferitisi negli Stati Uniti come elemento di orgoglio identitario, e dal 1964 è celebrata con un’apposita festa nazionale il 9 ottobre. L’elogio di Erikson come scopritore del continente al posto di Colombo risale invece alla fine dell’Ottocento.

Questa linea di pensiero non nasce dalle sole contingenze storiche, ma affonda le sue radici in archetipi culturali assai più antichi e profondi, cui finalmente ci stiamo avvicinando. Per meglio inquadrarli, dobbiamo evidenziare un ultimo punto spesso trascurato, ossia il tentativo più volte reiterato della cultura statunitense di porsi in diretta continuità con il mondo germanico altomedievale, il mondo dei barbari sassoni. Questa operazione ha avuto padri illustri ed è stata condotta su più piani: il più evidente è la simpatia che la cultura pop degli ultimi due secoli ha riservato alle figure del barbaro e del vichingo, ma è altrettanto considerevole la decisione di Thomas Jefferson, Padre Fondatore e futuro terzo presidente, di includere nei programmi dell’Università della Virginia lo studio dell’Old-English, quasi un tentativo di ricollegarsi a quelle radici.

I barbari sassoni e vichinghi sono colti non nel loro quadro storico, ma rivestiti di un’immagine mitica, quella di uomini forti e schietti e sopratutto liberi, il cui rigore morale li ha condotti alla lotta ed infine alla vittoria contro l’oppressione del malvagio impero romano. La cultura americana si pone direttamente dietro a questo monumento, rivendica come propria la lotta della libertà contro l’oppressione, e cerca a gran voce di mostrare il filo diretto con questi desiderabili antenati. Questa è anche la ragione delle copiose energie spese a più riprese per dimostrare una scoperta del continente americano ad opera di navigatori vichinghi prima di Colombo: attribuire il primato di arrivo ai barbari nobili e liberi sarebbe una gloriosa rivincita contro il fastidio di essere stati scoperti da un navigatore mediterraneo, al servizio di una potenza imperiale e per di più cattolica.

Ed è proprio nella mentalità degli antichi germani che si trova il tassello mancante, il particolare che completa questo mosaico e giustifica l’ostinato attaccamento alle armi che le contingenze presenti non sembrano più giustificare. È difatti un motivo inconscio, che come tale opera sotterraneo e non riconosciuto, perché scaturisce da modelli culturali sepolti, e quindi non vagliati dalla critica della ragione. La nostra guida sarà George Dumézil, autore di Gli dèi dei germani: un saggio datato ma ancora valido in cui vengono illustrate le somiglianze tra i pantheon delle religioni indoeuropee e successivamente esaminate nel dettaglio alcune peculiarità del cosmo germanico.

Una delle figure più interessanti dei miti norreni è infatti il dio Tyr, protagonista di alcuni miti di certo rilievo e inizialmente membro della triade più importante degli Aesir, al fianco dei più noti Odino e Thor, prima di venire sostituito dal successivo Frey[6]. La particolarità di Tyr non sta tanto nel suo carattere rigido ed inflessibile – il suo mito più celebre racconta come perse la mano destra nella bocca del lupo Fenrir pur di non mancare alla propria parola – ma nelle aree che ricadevano sotto la sua protezione ed influenza: Tyr infatti era patrono della guerra e armato di spada, ma era anche considerato il protettore della giustizia, dell’onestà e della parola data.

tyr e fenrir
Miniatura da un manoscritto del XVIII secolo (NKS 1867 4to), conservato presso la Biblioteca Reale Danese. Preoccupati della sua crescente stazza e ferocia, gli Aesir avevano tentato più volte di imprigionare Fenrir con l’inganno, ma sempre invano. Si procurarono dunque dai Nani un laccio magico e indistruttibile, e sfidarono nuovamente il lupo a farsi legare con questa nuova corda, promettendo di liberarlo in caso non l’avesse spezzata. Fenrir, insospettito, pretese che uno degli Aesir ponesse la mano nelle sue fauci a garanzia, e solo Tyr ebbe il coraggio. Quando il lupo non riuscì a spezzare il laccio, gli dèi rifiutarono di liberarlo e Fenrir mozzò la mano di Tyr.

Sono due materie che difficilmente associamo, e che infatti sono tradizionalmente assegnate a differenti divinità: per i romani la giustizia è attribuito di Juppiter e la guerra di Marte, nei Veda indiani Varuna è il sovrano e Indra il guerriero. Il saggio di Dumézil si fonda appunto sulla tesi che la cultura indoeuropea abbia riconosciuto tre caratteri fondanti della società – una funzione sacrale e giuridica, una guerriera ed una agricola e produttiva – e li abbia ripartiti ad una triade di divinità distinte, poste a fondamento della loro società

Questa apparente contraddizione viene in realtà risolta nel momento in cui restituiamo al dio Tyr la sua corretta attribuzione: egli è il patrono del þing[7], l’assemblea del popolo. Da questo discende la sua doppia attribuzione: egli è il dio della guerra in quanto protettore del popolo in armi, ma è contemporaneamente dio della giustizia in questo protettore del popolo in parlamento. Questi caratteri confluiscono nella stessa definizione del þing e dei suoi membri: è l’assemblea del popolo che combatte e delibera, il popolo in armi che giudica sui casi che coinvolgono la comunità e di converso il popolo in parlamento che si difende dal nemico; «Se la guerra è un þing sanguinoso,il þing del tempo di pace evoca la guerra: il popolo deliberante ha le apparenze e i costumi dell’esercito combattente»[8]. Non a caso una definizione ormai superata e riduttiva presente nei manuali scolastici mostrava nei regni romano-barbarici una distinzione tra gli «arimanni», uomini liberi che combattevano e dunque dotati di diritti civili, e i contadini di discendenza latina cui queste prerogative erano negate: era il segno evidente di questo habitus mentale del mondo germanico, in cui il diritto delle armi e il diritto della comunità erano inscindibili, e aver parte dell’uno significava essere chiamato a rispondere dell’altro.

Questo è il carattere nascosto e inconscio alla base della passione americana per le armi: l’antica mentalità degli avi cui cercano strenuamente di assomigliare ha forgiato l’idea indistruttibile per cui il diritto del cittadino si esplica anche nel possesso di armi, e vedersi limitato in tale campo vuol dire vedersi diminuito come suddito, del pari di non potersi muovere o non poter votare. Su questa cultura si è innestata una serie di episodi storici, dalla colonizzazione all’indipendenza alla conquista del West, che hanno rinfocolato il sospetto nei confronti del potere e attizzato la fiamma ideale per cui la politica è affare diretto di ogni membro della comunità, con il suo voto ed il suo fucile.

Si potrebbe domandare, del tutto a ragione, come mai la mentalità statunitense descriva quest’ideale di libertà armata come diretta emanazione dalla cultura degli antichi germani, quando i più prossimi discendenti di questi, gli abitanti del nord Europa, ne sembrano lontanissimi e niente affatto intenzionati a praticarlo: i moderni tedeschi, inglesi e scandinavi non vedono alcuna ragione per non regolamentare il possesso delle armi da fuoco e rifuggono dalla feticistica identificazione del fucile con la libertà. Bisogna tuttavia riconoscere che la società barbarica e guerriera idealizzata dai Padri Fondatori americani – o meglio, il contesto storico da cui si è originato questo mito – va collocato esclusivamente nell’Alto Medioevo, e non è perdurato nelle sue propaggini estreme oltre il X e l’XI secolo. Anche la parte germanica del mondo europeo ha vissuto l’ultimo millennio in società organizzate attorno ad un potere centrale capace di propagare la propria volontà ed imporre i propri editti.

Nel medesimo lasso di tempo in cui si costituiva la società delle colonie, fondata su un potere distante ed uno spiccio autogoverno, le monarchie del Vecchio Continente teorizzavano l’assolutismo e sviluppavano nuove forme amministrative centralizzate. L’archetipo dell’uomo libero che porta le armi e parla in assemblea non aveva più corso in Europa, ma è perdurato in America ben oltre la vita della società in cui si era formato.

Un retaggio anacronistico e irriformabile

Armi da fuoco negli Stati Uniti: un retaggio anacronistico

Il possesso delle armi da fuoco è diventato uno dei fattori più critici e divisivi del dibattito politico americano. Tra i paesi del primo mondo gli Stati Uniti sopravanzano di gran lunga gli altri sia per numero di armi possedute privatamente che per numero di morti violente causate dalle armi da fuoco; gli ultimi decenni sono stati testimoni con frequenza sempre maggiore di sanguinosi massacri in ambienti che si presupporrebbero sicuri, come scuole e chiese, grazie alla facile reperibilità di armi d’assalto. La condizione di diritto costituzionalmente garantito rende pressoché impossibile intervenire con strumenti legislativi, come ribadito da plurime sentenze recenti della Corte Suprema. Del pari, gli Stati Uniti stanno vivendo una profondissima crisi interna: in un dibattito sempre più aspro e polarizzato le parti politiche hanno rinunciato al compromesso e radicalizzato i propri programmi[9]. La permanenza e l’ampiezza del Secondo Emendamento sono divenuti uno dei principali fattori di questa divisione ed indisponibilità alla riconciliazione; il diritto alle armi è diventato per gli uni una parte imprescindibile e sacrosanta dell’identità americana, da difendere a tutti i costi, per gli altri un ostacolo che impedisce di realizzare i diritti alla base di quella medesima identità, la cui rimozione è necessaria per assicurare una società pacifica e sicura.

La diffusione generalizzata delle armi da fuoco era una necessità logistica in uno Stato in costruzione e dotato di pochi strumenti di controllo in una regione ancora non antropizzata e messa in sicurezza. Al giorno d’oggi, tutti i compiti che richiedevano la presenza di cittadini armati sono svolti in maniera assai più sicura e funzionale da organizzazioni specializzate e professionali: la tutela dell’ordine pubblico è affidata alla polizia, la difesa da un esercito di mestiere.

Nulla di tutto questo esisteva né all’epoca della guerra d’indipendenza né nel remoto passato altomedievale: nessun governo aveva la capacità logistica, politica ed economica per impiegare corpi stabili al proprio servizio, ed era costretto a demandare alcuni compiti ai privati cittadini. Tutto questo è stato ampiamente superato dall’evoluzione del diritto e dell’amministrazione degli Stati moderni. Purtroppo, poco possono ragionevolezza e contingenza contro il fascino di un mito fondativo: l’America è stata fondata e si riconosce anche nel moschetto e nella Colt, e dunque il diritto di portare armi ben difficilmente sarà limitato.

 

Leggi anche: La democrazia della polvere da sparo


Eric Foner, The Story of American Freedom, ed. italiana Storia degli Stati Uniti d’America.

Il titolo della traduzione italiana è fuorviante, e la scelta di citare la libertà solo nel sottotitolo riduttiva. Il saggio di Foner analizza l’idea di libertà, valore cardine della cultura statunitense, e i numerosi modi, talora difformi o addirittura antitetici, in cui è stata declinata. Ne emerge una definizione precisa e motivata di questo concetto vitale, imprescindibile per la comprensione degli Stati Uniti.

George Dumézil, Les dieux des Germains, ed. italiana Gli dèi dei germani.

Dumézil illustra con gli strumenti della mitologia comparata il carattere comune di alcune società indoeuropee a partire da elementi di mitologia condivisa, e descrive il modello funzionale con cui si sono modellate le loro comunità. Successivamente, analizza il caso specifico dei popoli germanici, di cui ricostruisce l’aspetto peculiare.

Matteo Sanfilippo, Il Medioevo secondo Walt Disney.

Questo volume, datato ma ancora assai prezioso, compendia le raffigurazioni che il Medioevo ha avuto nella cultura pop americana, e quali letture della Storia passata e presente fossero presenti in controluce a queste illustrazioni. Oltre al suo valore enciclopedico, il saggio è illuminante per delineare il rapporto tra la cultura americana e la storia passata, nonché la lettura del passato in base all’autorappresentazione del presente.

In copertina: Don Troiani, La ridotta, Battaglia di Bunker Hill, 17 giugno 1775, 2009, olio su tela, collezione privata. La battaglia di Bunker Hill fu una delle prime della guerra di indipendenza e si rivelò cruciale nel dimostrare come la milizia americana potesse combattere alla pari con un esercito regolare.

Alessandro Sergio Martino Gentile, autore di Storie Sepolte
Alessandro Sergio Martino Gentile

Quando ero bambino, chiedevo che mi raccontassero delle storie. Mi affascinavano tutte, dai miti greci ai racconti dei cavalieri, dalle fiabe alle avventure di pirati. L'esito inevitabile era finire a studiare la Storia, con la s maiuscola, per tentare di capire da dove veniamo. Nel frattempo sono stato maestro di scuola e volontario del servizio civile, e collaboro dentro e fuori il palco del teatro con Associazione Studio Novecento. Amo il silenzio e la musica classica, la lettura e le camminate, la buona cucina di mano mia o altrui.