I giorni della scuola – III
Come si sa, come si è detto e ripetuto fin quasi allo sfinimento, quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla pubblicazione di Lettera a una professoressa, il libretto dei ragazzi di Barbiana. Tutti ne hanno scritto: per capire le linee generali del dibattito servirebbe un articolo. Per fortuna Mauro Piras nel suo articolo Ciò che è vivo e ciò che è morto nella scuola di Don Milani ne riassume un’ampia parte, e quindi ci si può fare un’idea.
Nel corso del dibattito si sono toccati tutti gli aspetti, dalla questione della didattica a quella delle bocciature, dei programmi ministeriali, dell’uguaglianza a scuola, dei limiti e dei fraintendimenti del progetto di Don Milani, del fatto che una scuola così, forse, era possibile solo a Barbiana. Si è detto tutto, ne hanno parlato tutti, anche il Papa. Mondadori ha pubblicato Tutte le opere, nell’edizione Meridiani, per modici 140 euro. Gli ha voluto questo male.
E invece rimarrebbe ancora molto da dire su di lui, su questo tizio che fino al liceo non aveva in mente né il sacerdozio né l’insegnamento, e che poi, tutt’a un tratto, legge un messale e si converte. Ci sarebbe molto da dire su Don Lorenzo, su che mistero l’abbia portato a trentun anni in un paesottolo sperduto del Mugello, su che Dio e che vocazione gli abbiano fatto comprare una tomba in quel paesottolo, e l’abbiano convinto a non spostarsi più di lì.
Ma c’è un’altra questione, più interessante in realtà. Dire che ce ne siamo dimenticati sarebbe falso, perché ne accenna Franco Lorenzoni su Internazionale, per fortuna. Ed è la questione dello spirito, e ancora di più dello stile di quel libro. In una parola, la questione della poesia.
È uno stile estremamente forte, quello della lettera. È uno stile estremamente suo, così diverso dalla prosa saggistica o, peggio, dalla prosa scolastica. La voce che ci parla e ci racconta rivela una personalità assolutamente matura. Verrebbe da dire che è uno stile personalissimo, quello della lettera dei ragazzi di Barbiana.
Peccato che, personalissimo, non lo sia affatto. Perché è un libro collettivo. Non l’ha scritto Don Milani. Non l’ha scritto una persona sola. «Dopo che si è fatta tutta questa fatica, seguendo regole che valgono per tutti, si trova sempre l’intellettuale cretino che sentenzia: ‘Questa lettera ha uno stile personalissimo’» dicono nella lettera.
Con questo libro i ragazzi di Barbiana fanno di più che scrivere una lettera sulla scuola e sull’insegnamento. Con questo libro i ragazzi insegnano ai professori a scrivere. Buttano a mare tutta l’idea romantica del genio, della personalità eccelsa dello scrittore, dello scrittore come una cosa a sé, a parte, diversa dagli altri. Dello scrittore come una cosa preziosa.
Le regole con cui scrivono, valgono per tutti. Tutti possono impararle, e tutti possono scrivere in quel modo, scrivere con quella facilità e naturalezza. Altrimenti, perché si insegna? Perché si deve insegnare a scrivere, se siamo convinti che tanto ad impararlo siano solo i geni, sia solo chi di quell’insegnamento non ha bisogno?
E infatti, eccetto le scuole di «scrittura creativa» (su cui si dovrebbe aprire un dibattito, un giorno), nessuno insegna a scrivere. Si insegna «l’italiano»; si insegna «letteratura», ma a scrivere, poco e di fretta. Fa paura che tutti possano imparare a scrivere[1]. Perché poi, cosa farebbero gli scrittori? Ci sarebbe troppa concorrenza. Già oggi ce n’è troppa, figurarsi se tutti sapessero scrivere bene.
Ma in realtà è proprio la nostra paura di insegnare a scrivere, la nostra paura di perdere il nostro piccolo minuscolo sapere, che crea gli improvvisati di cui ridiamo e di cui proviamo invidia per le copie che vendono.
Per risolvere il problema, bisogna tornare a Lettera a una professoressa. Ci sono due pagine interamente dedicate alla stesura stessa dell’opera. Siccome siamo intellettuali cretini, ci viene subito voglia di dare un nome a questo procedimento, e per prima cosa ci appare nella mente la parola «meta-scrittura». Che bello, abbiamo studiato, sappiamo la parolina magica. Ecco un esempio di come il sapere accademico distrugge la poesia.
Invece ascoltiamo le parole dei ragazzi:
La teoria del genio è un’invenzione borghese. Nasce da razzismo e pigrizia mescolati insieme.
Anche in politica piuttosto che arrabattarsi nel pensiero complesso dei partiti è più facile prendere un De Gaulle, dire che è un genio, che la Francia è lui. Così fa lei con l’italiano. Pierino ha il dono. Io no.(…)
L’arte dello scrivere si insegna come ogni altr’arte.
Ma a questo punto abbiamo leticato tra di noi. Una parte voleva raccontare come facciamo a scrivere. Un’altra parte diceva: «L’arte è una cosa seria, ma fatta d’una tecnica piccina. Rideranno di noi».
I poveri non rideranno. I ricchi ridano pure e noi ridiamo di loro che non sanno scrivere né un libro né un giornale al livello dei poveri.(Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, p. 126)

Semplice e pregnante. Lontanissimo dalla prosa che si insegnava (e si insegna) a scuola. Frasi brevi, concise. Dritte al punto. È la stessa operazione che compiono Pavese, Vittorini, Calvino quando nel dopoguerra si rinnova la prosa, grazie all’influsso della letteratura americana. Non è detto, e non è nemmeno importante, che i ragazzi abbiano davvero letto Vittorini e Calvino. L’importante è che si siano misurati con gli stessi problemi. Ecco un altro virus dell’accademismo: l’intertestualità, le fonti: credere che se due autori scrivono la stessa cosa, o scrivono in modo simile, l’uno ha copiato dall’altro. No, si è trovato nella medesima situazione. Un giocatore di scacchi lo capirebbe subito. I filologi ci hanno messo molto di più, purtroppo.
Noi dunque si fa così:
Per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un’idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola.
Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo. Si passano uno a uno per scartare i doppioni. Poi si riuniscono i foglietti imparentati in grandi monti e son capitoli. Ogni capitolo si divide in monticini e son paragrafi.
Ora si prova a dare un nome a ogni paragrafo. Se non si riesce vuol dire che non contiene nulla o che contiene troppe cose. Qualche paragrafo sparisce. Qualcuno ne diventa due.
Coi nomi dei paragrafi si discute l’ordine logico finché non nasce uno schema. Con lo schema si riordinano i monticini.
Si prende il primo monticino, si stendono sul tavolo i suoi foglietti e se ne trova l’ordine. Ora si butta giù il testo come viene viene.
Si ciclostila per averlo davanti tutti eguale. Poi forbici, colla e matite colorate. Si butta tutto all’aria. Si aggiungono foglietti nuovi. Si ciclostila un’altra volta.
Comincia la gara a chi scopre parole da levare, aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola.
Si chiama un estraneo dopo l’altro. Si bada che non siano stati troppo a scuola. Gli si fa leggere ad alta voce. Si guarda se hanno inteso quello che volevamo dire.
Si accettano i loro consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza.
Dopo che si è fatta tutta questa fatica, seguendo regole che valgono per tutti, si trova sempre l’intellettuale cretino che sentenzia: «Questa lettera ha uno stile personalissimo».
Dite piuttosto che non sapete cos’è l’arte. L’arte è il contrario di pigrizia.(Scuola di Barbiana, op cit., p. 127)
I filologi hanno un feticismo per le stesure dei libri. Credono che stia lì il segreto di un’opera. I casi che insegnano qualcosa su come si debba scrivere sono invece molto più rari. Lettera a una professoressa è uno di quei rari casi. Il sistema è semplicissimo e non ha bisogno di commento. Fior di scritti accademici sono molto più impersonali, banali, piatti. Invece con la scrittura collettiva ognuno migliora l’altro, se tutti hanno la giusta sensibilità.

I ragazzi accomunano il loro metodo all’arte, e questo forse è troppo. La loro arte è una tecnica, una delle tecniche possibili, non l’unica, e generalmente è più indicata per testi di tipo argomentativo (articoli, saggi, lettere) che non di tipo narrativo. Scrivere un romanzo dividendo in paragrafetti e dando loro un nome non sarebbe una grande idea. Eppure nello stile, nelle loro parole c’è qualcosa che va al di là dell’argomentazione, c’è una capacità di sintesi quasi poetica, c’è l’asciuttezza, come dicevamo, di tanta letteratura del dopoguerra.
Non c’è scuola pubblica che insegni a fare questo. Che metta lì i ragazzi, tolga loro la speranza di essere «speciali», «diversi», e li spinga ad un lavoro collettivo che duri un intero anno, e non due o tre lezioni. La diversità, nella scuola, invece di essere risorsa è un metodo per mettere gli uni contro gli altri. È la diversità dell’8 e del 6, e del 4. È la diversità di Pierino, che «ha il dono».
Ma c’è ancora dell’altro. Nella Lettera, anche in questo passo, mostra sempre, senza vergogna, la provenienza degli autori. La provenienza sociale e la provenienza geografica. Non è necessario fare il censimento dei toscanismi per accorgersene. È così che la Lettera una voce propria, una voce vera. Non è scritta in quell’antilingua che è l’italiano colto, nella lingua da salotto di quei saggi in punta di penna, scritti fitti fitti perché non si capisca niente. La Lettera è sparsa di riflessioni sulla grammatica e sulla lingua, e sono riflessioni tutt’altro che estemporanee. È vero che non c’è confine tra latino e italiano; è vero che la lingua muta e le grammatiche cristallizzano semplicemente le mutazioni. Rispetto all’idea della regoletta da imparare a memoria, è un enorme passo avanti verso un’idea di lingua viva, che si possa modificare e plasmare.
Non c’è poesia senza uno spirito popolare. Ecco il grande, vero insegnamento della Lettera: lo studente non è materia informe da «formare». Lo studente arriva con un suo bagaglio culturale che viene dal suo popolo, dalla sua terra. E questo bagaglio culturale non è meno importante, anzi. È lo spirito popolare, lo spirito di quelle terre del Mugello, il sapere dei contadini e dei montanari che interessa ai ragazzi e a Don Milani.
E oggi, dov’è lo spirito popolare della nostra società? Dove sono i popoli, che cultura materiale esprimono? Sono queste le domande che la Lettera, indirettamente, pone. Non è solo un discorso sulla scuola, sull’insegnamento, ma sulla società tutta. Una società senza radici, senza quella cultura popolare, non sarà mai una società viva, sarà sempre una società che rincorre qualcosa. Rincorre la cultura materiale delle classi più agiate, rincorre lo stile di vita di altri paesi. Si sentirà senza identità e non saprà più come darsela; crederà di darsela, costruendosela artificialmente attraverso la propaganda, come è avvenuto durante il fascismo.
Ecco perché la Lettera è importante. Ecco perché, sì, ancora Don Milani.