Quest’anno ci siamo risvegliati da un lungo sonno. A poco sono serviti i richiami, i servizi, le raccomandazioni. Ci siamo svegliati e il risveglio è stato di quelli che ti lasciano la bocca impastata, la mattina, quando sei lì, e non capisci se stai ancora sognando o no, e i pezzi del sogno incominciano a perdersi dentro la testa. Come quando ti svegli lontano da casa, e apri gli occhi, cerchi la lampada sul comodino ma poi ti ricordi che non sei a casa tua, e che la tua lampada e il tuo comodino sono lontani chilometri e chilometri. Sono quei cinque-sei secondi in cui metti a fuoco tutto questo, ti alzi, superi la porta della camera dell’ostello e vai a lavarti la faccia. Pensa come è bravo il tuo cervello: in cinque secondi ha appallottolato la notte come un foglio di carta e se l’è messa in tasca, e tu ricordi perfino quello che hai fatto ieri, e dove sei stato, e in che posizione ti sei addormentato. Pensa che bravo.
Quest’anno invece le cose sono andate diversamente; ci siamo svegliati ma abbiamo fatto fatica a mettere a fuoco, a renderci conto; ho fatto fatica anch’io. Il 7 gennaio, e poi, ancora di più, il 13 novembre, ci siamo svegliati, e la nostra mente ha pensato ad altre date, all’11 settembre, agli attentati di Londra e di Madrid, che sembravano essere relegate al passato, fino a quel momento.
Non che non ci fossero state avvisaglie; non che la sveglia non abbia suonato, ma siamo comunque rimasti nel dormiveglia, fino a quest’anno. A quel punto, ci siamo accorti che l’ISIS non sarebbe stato un temporale d’estate. Ci siamo resi conto che non basta invadere paesi per risolvere il terrorismo; ci siamo resi conto che non basta ritirare le truppe, e dire “io non gioco più!” per risolvere i conflitti internazionali; che basta che un qualsiasi paese, per quanto lontano che sia, cada malato, preda dei signori della guerra, perché tutto il mondo ne sia contagiato.
Abbiamo imparato tutto questo, ma ancora il quadro non è chiaro, e richiede molti anni di studio, bisogna andare a rivedersi molte puntate che ci siamo persi, molti fatterelli di cronaca, magari raccontati nei trafiletti dei quotidiani, per farsi un’idea non sfocata.
Anch’io, come tutti, ho ripreso in mano questi discorsi dopo molto tempo. Ed eccomi a sfogliare i vecchi libri. Uno di questi è Lettere contro la guerra, di Tiziano Terzani. Ne avrete sentito parlare, di quel giornalista di guerra coi capelli bianchi e la barbona lunga, che sembrava un santone. Ma tutto era fuorché un santone.
Un personaggio incredibile, di quelli da romanzo questo Terzani. Inviato in Vietnam, giornalista in Cina, e poi l’inferno cambogiano, in mezzo ai khmer rossi, e poi in Giappone, e poi in giro per tutta l’Asia (l’ha percorsa tutta da un capo all’altro, in treno, nel 1993); anche lui, l’11 settembre del 2001, pensava di aver visto tutto.
Eppure la Storia doveva ancora fare capolino, un’altra volta, nella nostra vita. Le torri gemelle. E allora via, fa i bagagli e parte per l’Afghanistan. A sessantatré anni, di nuovo in guerra. Va a vedere cosa sia la guerra del nuovo millennio. Chi siano questi terroristi, questi talebani. E scopre una guerra senza senso, senza senso come tutte le guerre, fatta di due nazionalismi uguali e contrari, di due estremismi uguali e contrari. Una guerra fatta di propaganda e di menzogna, in cui obiettivi militari e case dei civili si confondono. Una guerra in cui a pagare, alla fine, sono sempre loro, i civili, le donne, i bambini. E scrive queste lettere, lettere contro la guerra, lettere contro la distruzione. Non ha soluzioni da proporre, Terzani. Ma ha la certezza che la guerra non è mai la soluzione.
Ho trovato questo, in Lettere contro la guerra. Un racconto di umanità e di speranza. Della speranza che l’11 settembre potesse essere l’occasione per fermarsi, pensarci su, e chiedersi come sia stato possibile arrivare a quel punto, invece di ripetere gli errori del passato e impantanarsi in un nuovo Vietnam, in una guerra che avrebbe generato nuovi mostri. E poi ho trovato una poesia.

Ho pietà per coloro che l’amore di sé
lega alla patria;la patria è soltanto
un campo di tende in un deserto di sassi.(Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, Longanesi, Milano, 2002)
Si tratta di un canto himalayano, citato anche da Fosco Maraini. E’ incredibile come la letteratura, nel momento in cui sembra più superflua, nel momento in cui sembra fuori luogo, sappia riprendere piede, e rubare la scena ad altri pensieri. Qui dobbiamo spostare l’attenzione su un qualcosa che non si dice spesso (l’arte serve anche a questo). Se ci pensiamo, il perno ideologico di moltissime guerre, quasi tutte, dell’evo contemporaneo è proprio questa parola,
Non è una parola, bisogna ammettere, alla quale non si possa essere legati. Come si fa, dopo aver letto Byron, a non amare la patria? A non essere dalla parte di quei greci che combattevano per la libertà? E non sentire un guizzo d’orgoglio per i bellissimi versi che ha dedicato all’Italia? E D’Annunzio, e Ungaretti? Ma quanti delitti, in nome della patria. Quanti orrori.
Ma allora cos’è questa patria? La patria è soltanto / un campo di tende in un deserto di sassi. C’è la disillusione, la lucidità di chi si rende conto della follia dei sogni di gloria; ma c’è anche un grande amore, in queste parole.

C’è l’affetto per quelle tende e per quel deserto di sassi. Questo è la patria. Se ci pensiamo, ha più a che fare con quel rapporto intimo, uterino del rapporto dell’uomo con la sua realtà quotidiana, che non con le bandiere e i sabati fascisti. Quanto saremmo più felici se capissimo che il nome patria ha forse più a che vedere con il nostro animo, che non con la geografia. Perché, alla fine, cos’è ciò di cui abbiamo bisogno? Un tetto sopra la testa, visi amici a tavola, la sera; questo è la patria. E quando capiremo questo, capiremo che, forse, i confini e le pallottole e le rivendicazioni e le bandierine sulla carta vengono dopo, sono un’illusione.
Forse (la speranza di Terzani è contagiosa) il 2016 può essere una buona occasione, può essere l’occasione per riscoprire noi stessi, per scoprire gli altri. Per capire che il rozzo invasore ha sempre una sua storia, alle spalle, ha una sua cultura.
Perché cultura non significa semplicemente il teorema di Euclide, la seconda guerra punica e la riproduzione per talea.
Cultura è come ridi, è come fai sì o no con la testa; se canti anche se sei stonato o ti vergogni.
Sono le favole che ti dicevano da bambino e il modo con cui ti commuovi osservando un filo d’erba. “Ci hanno insegnato tutto, ma non ci hanno insegnato una sola parola sulla nostra anima”, come Ingmar Bergman fa dire al protagonista del suo Scene da un matrimonio.
Forse dovremmo imparare a chiederci se sia vero, a pensare a cosa sappiamo di noi stessi, a cosa ci hanno detto; cultura è anche questo, sono i fuochi della tribù attorno ai quali si tramandava il sapere; sono le leggende che ancora sopravvivono in alcuni luoghi sperduti. Forse dobbiamo concentrarci maggiormente su di essi. Dobbiamo ricostruire le fibre di cui siamo fatti, noi occidentali, che non ci ricordiamo più chi siamo, e ci illudiamo di essere una civiltà. Solo così, forse, potremmo guardare negli occhi l’altro, e riconoscere, dentro i suoi occhi, noi stessi.