Quella vecchia di grigio vestita: storia di una melodia

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Può darsi che non lo sappiate, ma se mai durante una festa avete cantato a qualcuno il ritornello del “Perché è un bravo ragazzo, nessuno lo può negar”, quella che avete intonato è la melodia di una canzone popolare francese del ‘700, “Malbrough s’en va-t en guerre.

Oppure, se avete mai guardato qualche vecchio cartone animato, è possibile che abbiate avuto occasione di notare una particolare musichetta arabeggiante di sottofondo[1]. Quelli della mia generazione potrebbero anche ricordarla come la melodia sulla quale, più o meno in età da scuola media, veniva modulata all’indirizzo della bella della classe la richiesta di concessione in comodato d’uso di una determinata parte del corpo la cui specifica denominazione veniva generalmente lasciata sottintesa[2].

Quella melodia ha addirittura un certificato di nascita, nonché un padre; fu infatti pubblicata per la prima volta a New York nel 1895 dal compositore James Thornton, che vi adattò anche delle parole: il titolo originale della canzone era The Streets of Cairo, or the Poor Little Country Maid.

Le vie del Signore saranno pure infinite, ma anche le vie della musica non scherzano affatto. La vita di una melodia può essere avventurosa, imprevedibile, dominata dal caso tanto quanto la vita di un uomo. Perché sì, dopo essere nata, una melodia ha tutta una vita davanti. Non sempre è una bella vita, diciamocelo.

Alcune nascono morte, fischiettate da un compositore distratto che poi se le dimentica subito dopo. Alcune vivono male, annotate su miseri lacerti di foglio che poi passano direttamente dal cassetto di un comò a un polveroso scaffale della biblioteca civica di San Basculante sull’Arno. Altre nascono come cose grandiose per poi avviarsi lungo uno straziante viale del tramonto facendo da suoneria a un cellulare. Per fortuna, però, in mezzo a tanta desolazione ci sono anche quelle che ce la fanno. Quelle che vivono venti, settanta, cento, duecento anni.

E quelle, come la melodia di cui ora vi vado a raccontare, che dopo quattrocento anni sono ancora in giro.

La Beggar's opera in una stampa d'epoca

Nebulose le sue origini: partecipa del destino di molte sue compagne, che è quello di essere una povera figlia d’ignoto. Cominciò a diffondersi in Inghilterra verso la fine del XVII secolo, quando le bocche del popolino cominciarono a far rimbalzare di qua e di là una canzone dal testo tanto insulso quanto la piccola storia ignobile che raccontava.

Cominciava così:

An old woman clothed in grey,
Whose daughter was charming and young,
And she was deluded away
By Roger’s false flattering tongue.

C’era una vecchia vestita di grigio,
La cui figlia era giovane e bella,
E fu ingannata
Dalla falsa e menzognera lingua di Roger[3].

Il soggetto della ballata era sciapo e triviale anche per gli standard delle broadside ballads dell’epoca, quelle canzoni stampate su fogli volanti che venivano vendute per pochi spicci agli angoli delle strade. Una vecchia signora vestita di grigio ha una figlia bellissima che un brutto giorno si fa mettere incinta dal garzone zotico di un mugnaio zotico con la solita scusa del ti sposerò e saremo poveri ma felici ma poveri. Subito dopo il garzone si dilegua.

La pancia della ragazza comincia a crescere, e la poveretta si confida con la madre che s’incazza come una bestia e saltella sulle sue grucce fino al mulino con l’intenzione di spaccare la testa a questo dongiovanni da quattro soldi. Il giovane però corre ai ripari, e con un bel discorso s’intorta la vegliarda facendole capire che se lui morisse l’onore della figlia andrebbe perso per sempre: perché invece non sistemare le cose amichevolmente, con un bel matrimonio riparatore che così, en passant, farebbe anche del giovane il padrone di tutti i cospicui possedimenti terrieri della cara nonnina?

Ta-dah, che ideona!

Nicolaes Maes, Vecchia appisolata, 1656
Nicolaes Maes, Vecchia appisolata, 1656

La vecchia accetta. Il matrimonio viene celebrato e, come accade solo nelle ballate, tutti vivono felici e contenti, con la vecchia vestita di grigio che per la contentezza “dances a jig on her crutches” [4].

A fare la fortuna di questa gaia finestra sull’umana bassezza fu la musica sulla quale la storia veniva raccontata. Le parole della ballata erano state concepite per essere intonate su un vivace motivetto semplice ed orecchiabile, una jig che poteva benissimo evocare quella danzata dall’arzilla vecchietta durante la festa di nozze. Cercare di rintracciare le origini di questa melodia sarebbe, temo, del tutto inutile, anche se ho il sospetto che l’aria di una canzone di stampo monarchico, intitolata Let Oliver now be forgotten e inclusa dal poeta Tom D’Urfey nella sua raccolta Pills to purge Melancholy del 1719, possa riflettere una forma primitiva della stessa melodia.

Comunque, quale che fosse il suo pedigree, il motivetto piacque moltissimo. I primi anni del ‘700 furono tutto un fiorir di ballate scritte sulla medesima jig che, a proposito, fece furore anche come ballo da sala: l’editore John Playford, che nelle varie edizioni del suo English Dancing Master raccolse melodie e coreografie di una bella fetta delle danze in voga ai suoi tempi, ce ne ha conservata una versione che va sotto il titolo di Unconstant Roger, senza dubbio un riferimento all’antipatico protagonista della ballata. Il successo sembrava arridere alla canzone della vecchietta vestita di grigio ma, come la maggior parte delle melodie che troviamo nel libro di Playford, sarebbe stata presto dimenticata, se pochi anni dopo una fortunata circostanza non le avesse spalancato le porte di un’insperabile longevità.

Il 29 gennaio 1728 il sipario del teatro londinese di Lincoln’s Inn Fields si alzò su quello che sarebbe presto diventato uno dei più grandi successi teatrali di tutti i tempi: la Beggar’s Opera. Sortita dall’arguta capoccia del poeta e drammaturgo John Gay, l’opera si inseriva nell’ambito della polemica, ai tempi vivissima, contro l’opera lirica italiana, che grazie al genio di compositori quali Georg Friedrich Haendel, Giovanni Bononcini e Attilio Ariosti già da qualche decennio la faceva da padrona sulle scene londinesi.

La reazione di Gay a questa vera e propria psicosi collettiva era stata estremamente ingegnosa: in questa sua “opera degli straccioni” il poeta contrapponeva al mondo in cui si svolgevano le trame tipiche dell’opera italiana – un mondo fatto di dèi, cavalieri ed eroi che cantavano i loro affetti in un idioma musicale percepito come del tutto innaturale – quello dei bassifondi londinesi.

William Hogarth the beggars opera2

I personaggi che lo popolavano erano prostitute, briganti e tagliagole, che invece di sciogliere la voce in arie tanto elaborate quanto artificiose (e per giunta in lingua italiana) si esprimevano in un perfetto inglese inframmezzando alla recitazione canzoni intonate su ariette di origine popolare o teatrale, già ben conosciute dal pubblico. In mezzo a queste ariette – anzi, al primo posto, subito dopo una sontuosa ouverture che fu approntata con una certa fretta dal compositore Johann Christoph Pepusch pochi giorni avanti la prima – compariva anche il motivo della nostra vecchia ballata.

La Beggar’s Opera ricevette dal pubblico un’accoglienza che si potrebbe senza esagerazione alcuna definire trionfale. La première fu seguita da altre 61 rappresentazioni consecutive, un vero e proprio record per quei tempi, e ogni volta, all’aprirsi del sipario, la melodia che per prima incontrava le orecchie degli spettatori era proprio l’arietta di An old woman clothed in grey. Bisogna pensare che questo strepitoso successo abbia contribuito non poco alla sopravvivenza di un motivetto il cui unico, effettivo merito stava in un’estrema semplicità, e che forse senza questo colpo di fortuna sarebbe presto caduto nel dimenticatoio come spesso accade ai vecchi rottami delle mode passate.

Grazie a questa curiosa opera sui generis, invece, il pubblico gli si affezionò: ancora trent’anni dopo il successo della Beggar’s Opera lo si ritrovava in giro, inserito qua e là in composizioni strumentali basate su temi popolari[5] o anche in altri lavori appartenenti al fortunato genere della ballad opera che proprio l’opera di Gay aveva contribuito a lanciare[6]. Era però destino che, ben più della memoria popolare, fosse sempre il teatro ad assicurare a questa piccola, insignificante sequenza di note un ulteriore prolungamento di una già rispettabile carriera.

Nel 1928, esattamente trecento anni dopo la prima della Beggar’s Opera, il giovane ma già famoso Bertolt Brecht presentò al pubblico tedesco una propria versione del lavoro di Gay. Si intitolava Die Dreigroschenoper, letteralmente “l’opera da tre soldi”, ed era stata ispirata al drammaturgo dalla ripresa della Beggar’s Opera messa in cartellone dal Teatro Lirico di Hammersmith, a Londra, nel 1920. Certo i tempi erano un po’ cambiati, e di far satira sull’opera italiana ormai non importava più nulla a nessuno: le questioni sollevate dalla nuova versione dell’opera approntata da Brecht erano sostanzialmente di natura politica e sociale[7].

La musica, che restava comunque un mezzo importantissimo per far presa sul pubblico e veicolare con una maggiore semplicità quelli che erano i temi fondamentali dell’opera, fu completamente riscritta dal compositore Kurt Weill, amico e collaboratore di Brecht. Oddio… quasi completamente. Per la realizzazione della sua partitura, Weill si era lasciato ispirare soprattutto da quelli che erano i generi musicali più in voga nella Germania degli anni ’20. Le canzoni della Dreigroschenoper risultano ancora oggi semplici, efficaci e orecchiabili, alcune persino ballabili. Ce n’è una sola che colpisce per la sua particolare stranezza. Una canzone brevissima, cupa, ma che a questo punto non può che risultarci fin troppo familiare.

Era lei, era di nuovo lei. Ed era l’unica delle 69 melodie selezionate da Gay per la sua opera che Brecht e Weill avevano deciso di mantenere anche nella loro nuova versione. Risultava, è vero, piuttosto trasformata: l’accompagnamento si era fatto più ombroso e sinistro, e il testo, nell’originale di Gay una cinica riflessione sulla “rispettabilità” delle varie professioni umane, era diventato l’ipocrita preghiera mattutina di un gestore del racket dei mendicanti.

La linea melodica, però, era sempre la stessa, chiara e inconfondibile. La stessa partorita da un anonimo scribacchino della musica quattrocento anni prima. La stessa che un anonimo poetastro aveva appiccicato alla storia di una vecchietta vestita di grigio. La stessa che aveva fatto la delizia delle sale in cui, la sera, la gioventù londinese di inizio ‘700 si ritrovava a ballare. La stessa che un poeta, un poeta vero (e per di più un geniale showman), aveva designato come pezzo d’apertura di uno degli spettacoli di maggior successo di tutti i tempi. La stessa che, trecento anni dopo, tornava una volta ancora a solleticare le orecchie di un pubblico che di lei non sapeva nulla, e che forse la credeva nuova di pacca.

Che cosa volete di più? Che altra prova volete dell’imprevedibilità della vita di una melodia? Che è, vorreste vederla al cinema, magari riarrangiata in una versione da musical anni ‘90?

Beh, eccola qui. E ora zitti e a casa.

 

 


In copertina: Matthias Stom, Vecchia che prega, 1630-40 (particolare).

Federico Franchin
Federico Franchin

Sono nato a Monza nel 1991 e vivo a Milano. Ho una spiccata tendenza a occuparmi di scrittori e musicisti giudicati minori o semisconosciuti, perché seriamente convinto che anche a loro faccia piacere sentir pronunciare il proprio nome, ogni tanto.