I condomini dei defunti o la casa dei desideri

Paul Gauguin Manao Tupapao

Diario di un viaggio nell’Ade – III

 

E allora è così. Non c’è proprio nulla da fare. Non soltanto i Greci credevano fermamente in fantasmi, mostri, regni al di là della terra e dèi, ma queste loro credenze erano pure ordinate su precisi binari mentali che rispondevano a alcune necessità psicologiche. L’esistenza degli inferi era il limite del nostro mondo, il luogo a cui rivolgersi per prendere le misure della vita: distinguere tra noi e l’altro, e tra noi e l’altro in noi. Ritualità, psicologia, racconto e realtà si mescolano in un unicum.

Ma proprio nel momento in cui questa guida turistica dovrebbe passare a descrivere le bellezze e le attrazioni del regno dei morti (non so: l’architettura, il tipo di società, gli usi e i costumi della popolazione…), ecco che proprio in quel momento il nostro libricino si arresta. Scorriamo le pagine avanti e indietro ma sono tutte bianche. Non è per cattiveria, ma per il semplice fatto che qui è il nostro mentore stesso a tacere: Omero non fa parola di cosa ci sia e di cosa avvenga nel regno dei morti.

Certo le anime parlano con Odisseo, Achille afferma che vorrebbe essere l’ultimo dei contadini piuttosto che essere lì – ma il nostro sguardo non supera mai quella pietra di confine posta all’inizio. E noi della casa di Ade non sappiamo nulla. Là dove le tradizioni religiose a noi vicine hanno speso fiumi di inchiostro a immaginare paradisi, inferni, pene e benedizioni, angeli, demoni e via dicendo; e là dove pure noi passavamo ora a farci domande del tipo “ma quando i dinosauri muoiono e diventano angeli hanno anche loro le ali con le piume”? I Greci arcaici invece tacciono.

Ma che? Ci stupiamo? Beh ovvio che no… La vecchia tesi per cui i poemi omerici sarebbero un’ “enciclopedia tribale” del resto ormai è superata, no? Sappiamo bene che il contenuto presente nei poemi è un contenuto fortemente selezionato; si tratta di poemi di un’aristocrazia guerriera, e non di una classe sacerdotale. Le credenze non sono esposte in maniera descrittiva, ma operano silenziosamente lungo tutto il testo. Proveremo a rispondere a tre domande problematiche: ci sono nei poemi omerici le tracce di una credenza sul destino dell’umanità? Esistono informazioni precise sul destino degli uomini dopo la morte? C’è una credenza condivisa in cui si rispecchia un certo tipo di società?

Rispondere alla prima non è così semplice. Sappiamo bene dai testi posteriori che i Greci avevano già elaborato una ricca cosmogonia di cui non c’è traccia nei poemi omerici. Nelle Opere e i giorni Esiodo parla del mito delle cinque generazioni, delle cinque stirpi che si avvicendano seguendo la successione dei metalli dal più ricco al più umile; si tratta quindi di una visione peggiorativa della storia, di cui in Omero c’è solo una flebile traccia ogni tanto[1]. Questo non vieta però la presenza di un culto degli antenati, che è palese nel discorso di Glauco a Diomede nel VI libro dell’Iliade (la famosa metafora delle generazioni umane come foglie non sta tanto a significare la caducità dell’uomo, quanto il suo rinnovarsi negli anni attraverso le generazioni proprio come le stagioni e le foglie).

Frida Kahlo ragazza con la maschera della morte lei gioca da sola 1938
Frida Kahlo ragazza con la maschera della morte lei gioca da sola 1938

In occasione dell’ekphrasis dello scudo di Achille invece[2] ritroviamo un accenno al “canto di Lino[3]”, che ci porta molto lontano nella riflessione. Nella mitologia Lino era un cantore, spesso confuso con Orfeo, morto di morte violenta qualunque sia la versione del mito che lo riguarda, mentre Omero lo colloca nel contesto della vendemmia, instaurando curiosamente una connessione tra lamento funebre e mietitura. Questo non è affatto senza precedenti e corrisponde anzi a un’usanza di cui abbiamo tracce anche nell’antico Egitto a riguardo del mito di Osiride: l’uomo nel momento della mietitura avverte se stesso come un assassino e sente di star compiendo un sacrilegio contro la natura. Per espiare questo sacrilegio viene individuato un operatore simbolico che riassume su di sé le colpe della popolazione, e questo viene ucciso: costui è appunto Lino.

Tramite questo sacrificio si chiede perdono alla natura e si garantisce il ritorno della primavera l’anno a venire. Tutto ciò si iscrive nel modello culturale che sperimenta il tempo come “eterno ritorno”: la vicenda storica è destinata a passare per punti fissi che la rinnovano e la spingono a accadere di continuo. Anche dal morte del singolo, il lamento funebre e il periodo del cordoglio che l’accompagna allora hanno a che fare l’esperienza del passare stagionale: moriamo come sono morte le generazioni prima di noi, perché questa è la storia dell’umanità sulla terra, un continuo ripetersi degli stessi passi e un continuo riaccadere delle stesse vicende tutelate dagli stessi riti.

E dopo la morte all’uomo cosa succede? Nel senso: c’è vita dopo la morte? Beh, si potrebbe rispondere di sì se si guardasse superficialmente la discesa agli inferi di Odisseo, ma prestando attenzione ci si accorge che quella dell’Ade è una non-vita di fantasmi.

Tutte le culture primitive hanno sviluppato una sorta di anatomia-magica che divide il corpo umano in parti, a cui viene assegnata a ciascuna una particolare funzione: i Greci, ponendosi avanti su un percorso di astrazione e semplificazione, lo dividono soltanto in corpo (soma) e spirito (psuché). Si tratta di una componente fisica e una invece aeriforme. Non si deve considerare lo spirito di Omero come la nostra anima: l’anima di Omero assomiglia a delle allucinazioni oniriche, da cui probabilmente deriva, è una pura immagine, una sorta di simulacro della persona a cui era legata.

Il fantasma di Patroclo, dialogando in sogno con la psuché di Achille che dorme, afferma: «Oh dei! Anche nella casa di Ade vi è dunque ancora un qualche spirito e un’immagine, ma del tutto senza diaframma dentro» (Il. 103-104). L’anima è un doppio depotenziato che abita gli uomini già da quando sono in vita, o meglio ancora è letteralmente un simulacro che si rivela nel momento in cui la coscienza, la forza vitale si affievolisce; ossia nel sonno, nella morte e nei deliri. Questa parte fumosa che ci compone non è sottoposta alla decomposizione come il corpo ma viene convogliata nell’Ade.

Gustav Klimt Morte e vita
Gustav Klimt, Morte e vita, 1910-1915

Affermare che per la sussistenza di questa parte esista per i Greci una vita oltre la morte sarebbe un’assurdità. Ci si deve ricordare infatti che la religione greca si fonda sulla distinzione tra ciò che è umano e ciò che è divino, la quale ha come prima caratteristica la distinzione fra mortale e immortale: la persona muore, le parti che la componevano si dividono, il corpo e le facoltà intellettuali e sensibili i decompongono, mentre lo spirito scende nell’Ade.

Per questo motivo è impossibile vedere nell’oltretomba omerico un esempio di punizione o premio per le azioni condotte in vita: una prospettiva materialista, che vede nella morte un evento fisico iscritto nel ciclo naturale, domina qualunque prospettiva. La società che sta dietro alla composizione di queste credenze non è una società speculativa, ma una estremamente pratica. Fa esperienza della morte e ne trae le conseguenze, cercando di arginare il dolore e le rotture psicologiche che ne derivano: convoglia il ricordo dei cari in un luogo, che non è il fine a cui tende il percorso vitale, ma soltanto la fine che gli è posta dall’ordine delle cose.

Descrivere la città di Ade non è possibile perché di fatto la città di Ade non esiste. È puramente un luogo funzionale, un termine limite in cui non ci si può spingere. Si tratta di una proiezione dei binari mentali su cui agiva l’uomo greco: primo fra tutti la comprensione dei limiti dell’uomo. Anche i destini che dovrebbero evadere da questa visione la riconfermano a pieno. Menelao non viene portato nei campi Elisi per i suoi meriti di re, ma perché genero di Zeus[4].

Si tratta di una società completamente decentrata nella vita, che non getta sguardi nella morte se non per definire il proprio spazio vitale: per comprendere, in un certo senso, la propria identità. Si tratta di un recinto dell’esistenza, la definizione di uno spazio in cui si può vivere con le norme assegnateci, e tutelato da rituali di passaggio e istituzioni culturali che distinguono e ordinano la vita, in modo tale che ciò che sta di là non torni o non venga a sconvolgere ciò che sta di qua.

L’Ade poi, quello vero, quello profondo, fatto dei nostri ricordi ma anche dei nostri sogni, delle nostre paure e dei nostri desideri, i Greci sapevano bene che si trova in una parte recondita di noi stessi.

 


L’articolo ti è piaciuto? Leggi anche le puntate precedenti: Sognare con Omero e Navigando verso l’oltretomba di Omero

Rudy Toffanetti
Rudy Toffanetti

Vive a Lacchiarella, in Provincia di Milano. Dopo la laurea in lettere antiche all'Università di Pavia, studia filologia, letteratura e storia dell'antichità a Milano. Collabora con l'assciazione teatrale Studionovecento, ed è volontario presso la Croce Rossa Italiana. Poeta dagli anni del liceo, nel 2016 ha pubblicato la sua prima opera, Sul Confine.