Le menzogne della notte: Bufalino e il sogno della memoria

Emile Nolde 1

Mangiarono pochissimo o niente. Le portate, sebbene più ricche dell’ordinario, per come s’era ingegnato di condirle un secondino volenteroso, avevano un sapore nemico, né v’era boccone che in gola non diventasse una cenere. L’inappetenza, si sa, è d’obbligo nelle serate d’addio. Per cui, essendo l’esecuzione fissata ai primi barlumi dell’indomani, il barone non finiva di accalorarsi per questa ipocrisia di concedere ai condannati inutili ghiottonerie, mentre non s’aveva scrupolo di attossicargliele col pensiero della scadenza imminente.

Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte, in Opere 1981 – 1988, Bompiani Milano, 1992, p. 565.

La realtà inganna. L’uomo ancor meglio, perché può infiorettare i suoi Racconti le Memorie i Ricordi le Idee; può cuocere sublimi menzogne, astute finzioni, iperletterarie fantamemorie farcendole di trame dorate, condendole di preziosi trabocchetti – when you are in the trouble my dear… – che ti disorientano ma ti avvincono, ci ingannano ma pure ci incatenano (alla poltrona, al divano, al cuscino, su qualunque superficie sufficientemente comoda atta al consumo di una profonda lettura!), vi meravigliano ma ancor più vi irretiscono. Oh se irretiscono, per Giove! Ma quando son bravi ci si perdona tutto, eh. Ah, benedetti scrittori!

Gesualdo Bufalino, ai nostri lettori soggetto già noto (e mi auguro anche diligentemente assaporato), è stato definito da Maria Corti, ma pure da sé medesimo e in più occasioni,  autore ossimorico. Gesualdo ama l’ossimoro. Fondamentale figura retorica dell’opposizione – il dolce-amaro di fanciullesca memoria o ancora, per citare l’autore, il siculo-europeo come sintagma qualificativo per definirsi, o ancora l’emblematico inesistenza-attiva per indicare Colui che move il sole e l’altre stelle, l’ossimoro veste un ruolo di particolare rilievo nella produzione dell’autore siciliano così come fa l’antitesi che, ci ricorda sempre la Corti, segue pedissequa la sinuosità del discorso, figura che connota la relazione fra il farsesco del vivere e l’artificio dello scrivere, sospesa fra il tragico (uomo) e il comico (Dio). Esempio evidente di ossimoro è il titolo di un’opera del nostro siciliano, Argo il cieco[1], opera che si configura doppia anche nella distribuzione dei capitoli[2].

Emil Nolde

Per il nostro autore l’atto dello scrivere passa attraverso l’atto del ricordare, o ancora meglio quello di prelevare, da un enorme e inquantificabile serbatoio, la memoria. A questo prelievo si accompagna sempre un forte sgomento perché la memoria, per Bufalino, è strettamente legata in duplice senso alla morte: da un lato sottrae ad essa, sottrae piccoli sprazzi di esistenza reale o fantasticata dal nulla,  dall’altro maggiore quantità di memoria in un individuo equivale a maggior vicinanza alla morte dello stesso. Inoltre, e qui mi richiamo in parte al titolo dell’articolo, l’atto del raccontare un ricordo trasforma quest’ultimo in fiaba, si costituisce come processo ludico in cui l’immagine del ricordo viene artefatta, riesumata, reimpostata e rivestita di un nuovo abito. Un processo che Bufalino definisce insistentemente sogno della memoria, cioè fantamemoria.

Ora, una volta affermato ciò, se si può provare  a delineare un discorso unitario per parte della sua opera – i già citati Diceria dell’untore, Argo il cieco o ancora L’uomo invaso – dove la fantamemoria, in quanto connubio di vita e morte, ha luogo su una linea di svolgimento memoriale-biografico piana (è il caso del luogo e dell’io nella prima delle opere su citate) così non possiamo fare per Le menzogne della notte, tappa successiva e altra rispetto alle fatiche precedentemente indicate.

Quando lessi il romanzo per la prima volta, difatti, lo scorso gennaio, nelle ore notturne alla vacillante luce di un fuoco addomesticato, ne ebbi un’impressione incompleta, quasi di gioco letterario, di giostra luccicante e iridescente, come di filastrocca o ballata popolare facilmente cantabile, piacevolissima all’orecchio, che ti afferra sottobraccio e ti trascina avanti avanti avanti, provocandoti, scuotendoti,  per tutto il circuito della sala, sino all’oscuro cantuccio lì dimenticato, altresì definibile fatale conclusione, definitivo fiato. Non più il lento, sovrabbondante, sragionato incedere della Diceria, non più il barocco meditato, funzionale, strutturale, borrominiano, quanto lo spettacolo, coltissimo certo, inafferrabile per rimandi e citazioni, ovvio, di un barocco più disteso, berniniano stavolta.

Probabilmente non mi sono lasciato intendere. Riprovo.

Emil Nolde, Mare d'autunno
Emil Nolde, Mare d’autunno

Con Le menzogne della notte (1988) noi lettori varchiamo pienamente la sfera della memoria biografica, superiamo a piè veloce i canoni ristretti di una narrativa aridamente finzionale, ci tuffiamo in una vicenda ricca di suspense con venature di giallo iperreale[3], una sequela di storie che profumano di mistificazione e di allegoria, infarcita di sovrasensi in cui però tutto il carosello è sacrificato a una lingua, ricchissima-preziosissima-coltissima, ma molto più scorrevole rispetto alla prova iniziale della Diceria.

Affondiamo gli occhi nel regno del romanzo.

Basta scorrere velocemente gli incipit dei due racconti (sì, lo so, è scomodo, ma dovreste avere sotto gli occhi anche l’incipit della Diceria): nel caso più antico il periodare è molto più sinuoso, meno piano, farcito di inquietanti impressioni, l’io dell’autore si palesa subito, è ambiguo, corrotto; nel secondo caso invece siamo di fronte ad un incipit evidentemente narrativo, condito da un’insistente ironia, pure questa abbondantemente usata da Bufalino all’interno dei suoi lavori.

Attenzione! La lettura delle Menzogne è anch’essa impegnativa però, richiede molta concentrazione ma non necessita, spesso, di una rilettura, di un ritorno sulle varie proposizioni come nell’altro caso; è un canto più leggero e armonioso, una buona musica ricchissima di variazioni. Come ricorda Ella Imbalzano «L’obiettivo non è la pura stupefazione, ma l’adeguamento della scrittura a quel labile velo che congiunge e confonde “verità” e “menzogna” (riflettendo l’ignoto che presiede alle cose), fra le quali non è dato neanche allo scrittore distinguere». La realtà inganna.

Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte, copertina

E difatti tutto il romanzo è giocato sull’inganno, sull’incapacità, che è adeguamento della scrittura, di delineare definitivamente, compiutamente le circostanze, gli eventi e gli atti degli esseri umani. I quattro condannati a morte, reclusi in un carcere su un’isola all’infuori di un tempo storico, ma che richiama di sbieco, di tangenza, gli anni antiborbonici e in una geografia sfocata, raccontano, si raccontano il momento più importante, la luce più sfavillante, il punto di svolta delle loro vite.

Le loro vicende sono i medaglioni che costitueeiscono l’essenza della cornice in cui sono contenuti come nel caso delle novelle del Decameron o ancora le favole delle Mille e una notte; sono le fantamemorie di cui abbiamo parlato sopra, gli exempla che ci concede l’autore, l’indice puntato verso quell’ossimoro che è la vita, quell’intruglio di antitesi che sgorga dalle menti di ognuno di noi, quel sottile confine, quel limes, che non saremo mai capaci di squarciare.

Ancora più imperativa testimonianza di questa incapacità, nei fatti, di conoscere e definire l’Avvenimento, gli eventi, ce la concede l’indagine del Governatore del carcere, Sparafucile. Mi fermo qui.

Vi consiglio caldamente la lettura di questo romanzo, poi la rilettura dello stesso e ancora, nelle notti uggiose, un profondo abbandono dei vostri pensieri tra le sue pagine; vi auguro di ritornare sui luoghi noti ma pur sempre evanescenti, di scorrere con lo sguardo le fila di poltrone vuote di un teatro in rovina, di scrutare di nuovo i solchi sul viso di personaggi già conosciuti, di tutte le proiezioni dell’autore, di cogliere ogni dettaglio e di apprezzarlo per quello che è o che potrebbe essere, vi chiedo di leggere e leggere ancora una volta Bufalino e di porlo in dubbio.

 


Per approfondire: Ella Imbalzano, Di cenere e d’oro. Gesualdo Bufalino, Milano Bompiani, 2008.

Redazione: Salvatore Ciaccio
Salvatore Ciaccio

Nato a Sciacca in provincia di Agrigento nel 1993, ho frequentato il Liceo Classico nella mia città natale per poi proseguire gli studi a Pavia, dove mi sono laureato in Lettere Moderne con una tesi dedicata all'architettura normanna in Sicilia.