Melancholia di Lars von Trier: un’ammaliante apocalisse

melancholia

«La terra è cattiva, non dobbiamo addolorarci per lei»
«Cosa?»
«Nessuno ne sentirà la mancanza»
«Ma dove crescerà Leo… dove crescerebbe?»
«L’unica cosa che so è che la vita sulla terra è cattiva»
«Potrebbe esserci vita in altri luoghi!»
«Ma non c’è»
«La vita è soltanto sulla Terra… e per poco ancora»

L’incubo millenario, la chiusura del sipario sulla vita è un tema magnetico, che torna a far sentire la sua presenza ogni volta che vediamo minacciata la nostra esistenza: il Novecento e l’epoca contemporanea sono costellate dal timore della fine. Sfondare l’orizzonte percettivo dei sensi, lasciarsi angosciare da un altrove vicino e lontano, così indefessamente opposto da vincerci e inghiottirci. Specchio della crisi dell’individuo, anima dolente del mondo, cuore del contemporaneo stretto e soffocante, la fine del mondo si lega alla malinconia, al decadente osservare le cose che muoiono.

Hollywood ha partorito una miriade di film che ci raccontano la fine della nostra specie, al punto che è nato un vero e proprio genere: il Disaster movie, rappresentato per esempio da Roland Emmerich. Suoi infatti sono The day after tomorrow e 2012,  votati allo spettacolo pirotecnico e coreografico, con una quantità impressionante di effetti speciali, capaci di angosciare e impressionare lo spettatore, in linea con la produzione hollywoodiana.

Qui, invece, il racconto apocalittico si fa maggiormente intimo. The Road, di Cormac McCarthy, e la sua trasposizione cinematografica diretta da John Hillcoat ne sono un buon esempio. Come questi, anche il film che sto per introdurvi, Melancholia, focalizza la propria attenzione sui rapporti umani, descrivendo i motivi primi, l’intimo essere dell’uomo, e sviscerandone i difetti e le qualità in uno scenario estremo, in cui la normalità viene meno.

Melancholia Lars Von Trier

Lars Von Trier, uno dei maggiori registi danesi, conosciuto per film come Antichrist e per lo “scandaloso” Nymphomaniac, affronta in questo film il tema della fine del mondo in un’ottica sensibilmente intimista, ricca di citazioni artistiche e poetiche, un quadro contrastato che si divide tra opulento barocchismo e minimale (ma non per questo meno ricercata) semplicità.

Partendo da un episodio di depressione sofferto qualche anno prima e, in particolare, da una considerazione del suo psicologo, Von Trier costruisce un film rigidamente diviso in due parti: la prima ci mostra la corruzione e l’ipocrisia della vita associata, la seconda la solitudine dell’individuo. La prima parte ha il nome di Justine, evidente doppio del regista, anima fragile divorata dalle rigide regole di una società che la vuole felicemente sposa. Il ricevimento che si svolge a casa della sorella Claire (che dà il nome al secondo atto del film) diviene per Justine tempesta emotiva e occasione per esprimere senza veli ne ipocrisie una profonda depressione.

Parallelamente, vi è una minaccia, prima solo accennata, poi nella seconda parte del film sempre più evidente, che incombe: un pianeta, Melancholia, che passerà molto vicino alla Terra, e potrebbe scontrarsi con essa. L’intento del film di Von Trier, dunque, è mostrare le differenti reazioni di una famiglia a un cataclisma, a un’imminente fine. Alla rassegnazione di Justine si oppone il dramma di Claire, borghesuccia contenta delle sue piccole certezze, moglie perfetta e madre amorevole, eppure terrorizzata dalla possibilità di una collisione. Justine invece, per la quale il mondo è solo cenere senza alcun guizzo di fiamma a darle calore, è affascinata dal gigante blu, dalla possibilità che concede al suo spirito di sperare in un’unica, enorme certezza: la fine dell’uomo.

Melancholia Von Trier
Fine che coincide con Melancholia, che è simbolo di questo sentimento, che danza e gioca col nostro cuore. L’Arte tutta è richiamata dal regista in questo suo quadro apocalittico che intrappola lo spettatore in una rete sublime intessuta di silenzi, immagini ricercate, echi wagneriani.

Il regista danese riflette sul mondo, si spoglia e ci pone complici della sua opera, impone la sua arte e il suo stile, confrontandosi con una tematica estremamente stratificata: da un lato la fine del mondo è collettiva, dall’altro è una maschera che nasconde la depressione, l’ossessione di Justine, o dello stesso regista verso il disfacimento delle cose, già presente in un film come Antichrist, e che qui trova una piena dimensione apocalittica. Un’apocalisse artistica sulle note del Tristano e Isotta di Wagner, un drammatico ritratto dell’uomo senza speranza che scivola sull’inutilità delle convenzioni, che si aggrappa ai piccoli gesti di ogni giorno.

Infine, il Prologo.

Centro e fulcro del film è infatti il suo inizio: il film si apre con la danza di Melancholia e della Terra. Già nel prologo l’approccio estetizzante di Von Trier mostra l’insieme di fascino e terrore di fronte a qualcosa di immensamente più grande di noi. La malinconia, del resto, è questo insieme di amaro e leggiadro, che esprimono i grandi poeti decadenti, così paradossalmente vicini alla nostra epoca.

Come i protagonisti della pellicola o i poeti dei secoli andati, anche noi ci lasciamo ammaliare da questo perfetto momento artistico e questa celestiale danza di morte, combattendo un fatale duello con la Malinconia, pronti a farci sedurre e vincere dalla luce lunare in attesa dell’alba.

Redazione: Salvatore Ciaccio
Salvatore Ciaccio

Nato a Sciacca in provincia di Agrigento nel 1993, ho frequentato il Liceo Classico nella mia città natale per poi proseguire gli studi a Pavia, dove mi sono laureato in Lettere Moderne con una tesi dedicata all'architettura normanna in Sicilia.