Filippo Ticozzi: inseguire il vento, uno sguardo sulla morte

Inseguire il vento

Silenzio. C’è una finestra. Una donna, capelli neri, ricci, la apre. Silenzio. Strada. Silenzio. Un ospedale, delle maschere di cera. Cera come pelle umana, pelle umana come cera. Una voce, la voce della donna dai capelli neri. Voce incerta, di un italiano incerto di inflessione marcatamente francese. Quella voce è l’incertezza di tutto il film. Stacco. Camera illuminata, come una stanza d’ospedale. C’è un morto in quella stanza.

La telecamera ne inquadra gli arti, ne inquadra i dettagli. Mai l’intero. Ci risparmia la visione dell’intera figura. Non c’è trucco. Non è una finzione. Il corpo è davvero morto. La telecamera ce lo mostra così, nella sua realtà, quasi una cosa fra le altre. Non siamo in un ambulatorio ospedaliero. Siamo in una casa funeraria. La donna, di cui sappiamo solo il primo nome, Karine, spiega ai presenti nel suo italiano fragile le operazioni da condurre sul corpo.

Per tutto il film ci si chiede cosa sia la morte. Cosa sia questa cosa che non c’è. Un corpo, un corpo morto appartiene alla dimensione degli oggetti. Lo si può spostare, lo si può manipolare, come un qualunque oggetto. Questa cosa ci fa orrore. E ci fa orrore la decomposizione, il dissolversi dei corpi al vento. La manipolazione del corpo è esattamente il limite etico che Karine si impone: il defunto deve essere riconoscibile. Si deve dire: è lui, è lei. Anche nei suoi difetti. Volendo, si può fare quasi tutto, con la tanatoprassi, con l’imbalsamazione. Ma bisogna imporsi dei limiti.

Per la nostra cultura, il corpo ha un’importanza inconcepibile. Gli indiani cremano i defunti; i tibetani li lasciano nei boschi, perché gli animali possano nutrirsene. In India, quando si muore, si dice «lasciare il corpo». Come se fosse qualcosa di secondaria importanza. Per noi no. Per noi, l’immagine di una persona passa essenzialmente per quel corpo. Ai funerali, tocchiamo, baciamo il defunto, anche se sappiamo che lui, o lei, non è più lì. Anche se sentiamo che quel corpo, alla fine, è un guscio vuoto, e che quello che era quella persona non c’è più. È nel vento.

Inseguire il vento filippo ticozzi

Filippo Ticozzi non ci dice perché la nostra cultura sia tanto impregnata di materialità. Ma lascia la domanda. Ed è per questo che ad un certo punto lo sguardo del regista si sposta verso l’esterno, verso gli altri, verso ciò che rimane. Scopriamo, improvvisamente, di essere in una città italiana ben precisa. Incominciamo a vedere le strade, le chiese. Atterriamo nel mondo, ritorniamo a posare i piedi sull’asfalto, sulla pietra dei corsi di Palermo. La casa funeraria era un mondo a parte, sospeso nel vuoto. Uscendo da quel vuoto, possiamo chiederci come gli uomini percepiscano la morte.

E scopriamo i musei delle cere, scopriamo l’arte, la letteratura. Palermo ha un certo rapporto con la morte, come sa il lettore di Bufalino. E scopriamo che l’incapacità dell’uomo di guardare la morte negli occhi, come cosa tra le cose, come invece è capacissima la telecamera. Scopriamo che l’uomo deve sempre sublimare la morte, trasfonderla nella surrealtà delle statue di cera, o sotto il velo di un affresco, o di una parola.

Ticozzi e Karine scendono nella famosa catacomba dei cappuccini. La diversità tra l’operazione attenuante dell’esperta e l’esibizione degli scheletri nella catacomba, in fila uno per uno, appesi come manichini alle pareti, catalogati per epoca, per sesso e tipologia, diventa rovente, e stride, e sentiamo lo stridìo. Eppure hanno radici comuni, vengono dalla stessa esperienza cristiana. Il volto di Karine si specchia nel volto della mummia di Rosalia Lombardo, una bambina imbalsamata ad inizio secolo, considerata una delle più belle d’Europa.

In quello sguardo, c’è tutta la differenza e tutto il legame fra due tentativi disperati e dignitosi di resistere alla morte, di preservare ancora un qualche simulacro di vita. Quando si tratta di una bambina, cerco di essere più dolce, dice Karine. C’è come una barriera, dice. Come se si rendesse conto, per un attimo, dell’assurdità di questa pratica antica. Pratica assurda, eppure umana. Forse umana proprio perché assurda. Non c’è civiltà che, a suo modo, non onori i morti. Non c’è civiltà che non pensi se stessa attraverso il culto dei morti. E questo, forse, ci rende ancora uomini.

La telecamera si perde nelle strade di Palermo, nel vociare di ragazzi. Non dà una risposta, si interroga soltanto.


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Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.