Le ragioni di Francesco del Cossa

Francesco del Cossa, Santa Lucia

Da bravo avvocato, quale in realtà non sono, non posso non fare a meno di difendere le gesta di un mio, seppure ideale e solo immaginato, cliente. Il fatto, l’evento a cui farò riferimento nelle prossime righe, si è consumato quasi cinquecentocinquanta anni fa in un luogo che, devo ammettere con profondo rammarico, non ho ancora visitato. Si tratta di Ferrara e, per essere precisi, del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia. Qualcuno di voi vi è mai entrato?

Vi starete probabilmente chiedendo chi sia il mio cliente, di quale ipotetica colpa si sia macchiato, del perché ci tenga così tanto a difenderlo. E poi quest’uomo, di cui potete leggere benissimo nome e cognome nel titolo dell’articolo, ormai defunto da mezzo millennio, non si sarà difeso egregiamente da solo? Non avrà fatto valere le giuste ragioni delle sue azioni?

Cosa posso fare io, senza gli strumenti adatti, dopo tutto questo tempo?

Posso solo raccontare brevemente la sua storia, suggerirvi una possibile lettura delle opere del mio uomo, un pittore, e citare, a mio e suo favore, alcune sue parole.

Il mio cliente, Francesco del Cossa, è nato a Ferrara nel 1436, in un epoca molto felice per la cittadina emiliana, in pieno sviluppo economico e urbanistico dovuto agli interventi e al mecenatismo perseguito dalla famiglia d’Este. Da un punto di vista squisitamente artistico è questo il momento in cui gli artisti (non per forza autoctoni) sviluppano una maniera, uno stile molto originale dove i bagliori del Rinascimento quattrocentesco (di Donatello, Piero della Francesca e Leon Battista Alberti) si mescolano all’arte fiamminga (Rogier Van der Weyden) e ai ricchissimi strascichi del gotico cortese.

Ed è proprio per la corte degli Este, nello specifico per la committenza di Borso d’Este, che Francesco del Cossa affresca una delle quattro pareti che compongono il Salone dei Mesi nel Palazzo, tardo medievale, di Schifanoia.

Francesco del Cossa, Mese di Aprile, salone dei mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, 1469-70 (particolare)
Francesco del Cossa, Mese di Aprile, salone dei mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, 1469-70 (particolare)

Affreschi che oggi, nel complesso, risultano molto rovinati: la parete sud (dove si trovava il camino) è praticamente illeggibile, come la parete ovest; mentre sia la parete nord (dove si aprono delle finestre) e la parete est (affrescata dal mio cliente) sono ancora in gran parte leggibili, seppure molto impoverite a causa della caduta di parte dei pigmenti di colore. Perché tale differenza di conservazione?

Forse parte della risposta, al di la della posizione più o meno favorevole degli affreschi, risiede nel metodo di composizione delle suddette pitture, impropriamente (in parte) definite affreschi.

Come sottolinea il mio stesso cliente in una Supplica vergata di suo pugno e inviata a Borso d’Este in data 25 Marzo 1470 il suo lavoro risulta considerevolmente  migliore rispetto agli altri pittori che si sono occupati della decorazione del Salone perché eseguito «quaxi et tuto a frescho», cioè secondo una tecnica dove i pigmenti di colore venivano stesi sull’intonaco bagnato. E gli altri invece?

Gli altri pittori (non si sa bene quanti) hanno eseguito il loro lavoro a secco, cioè stendendo il colore solo una volta che l’intonaco e i diversi strati preparatori fossero ben asciutti. Che cosa cambia, mi potreste chiedere.

In effetti agli occhi di un semplice spettatore e, forse, anche a chi si intende un po’ d’arte o è del mestiere, le scene eseguite secondo l’una piuttosto che l’altra tecnica, risulterebbero uguali, almeno sotto l’aspetto qualitativo. Anzi, la pittura a secco permette una maggiore gamma di colori e maggiore ricchezza e brillantezza degli stessi. Agli occhi di Borso d’Este, in fin dei conti, le scene dovevano sembrare parimenti valide, egualmente fastose. Anche perché, come sottolinea lo stesso Francesco del Cossa, egli stesso completò i dettagli delle sue scene a secco. Questa dopotutto era una pratica usuale in diverse zone d’Italia e da diverso tempo (già dal Duecento).

Eppure, proprio in ragione di una differente qualità di esecuzione e (a sua detta) del risultato definitivo, Francesco del Cossa chiese di essere pagato di più rispetto agli altri pittori e legittimò la sua richiesta affermando che «è noto a tuti li maistri de l’arte» la superiorità della pittura a fresco rispetto alla coeva pittura a secco, la prima più difficoltosa perché il pittore, una volta steso l’intonaco, doveva stendere il colore subito e senza incertezze.

Francesco del Cossa, Allegoria di Aprile, trionfo di Venere, 1476
Francesco del Cossa, Allegoria di Aprile, trionfo di Venere, 1476 (particolare)

Secondo voi Borso d’Este si rese conto della disparità delle pitture? Premiò il mio cliente con un bell’aumento? E ancora: come riuscì Francesco del Cossa a lavorare diversamente, a scegliere con che tecnica compiere il suo lavoro? Quali rapporti intercorrevano tra il committente e gli artisti?

Molti di questi quesiti sono ancora oggi senza soluzione: Borso d’Este non era come il suo predecessore Lionello d’Este, uomo profondamente immerso nel clima artistico ferrarese, ma un uomo per il quale l’Arte era semplice strumento, un modo come un altro per dare lustro alla propria casata e alla propria corte.

Non è un caso il fatto che il contratto per la decorazione del Salone risalga al giugno del 1469 e che parte dell’opera, molto probabilmente, risulti finita per il febbraio dell’anno successivo: Borso vuole stupire i suoi ospiti, vuole che rimangano sorpresi dagli ori e dai colori sgargianti. Per questo è quasi certamente lui a scegliere e ad elaborare il soggetto degli affreschi come parte della disposizione dei personaggi. Gli artisti sono semplici artigiani, utensili di un demiurgo. E allora perché parte del salone venne lavorata  fresco?

Evidentemente intercorreva un piccolo margine di libertà, il lavoro di decorazione non era così puntigliosamente esaminato dal committente. Di certo non possiamo conoscere il motivo delle scelte del Cossa, solo immaginarle. La penuria di documenti non ci consente di tessere un quadro esaustivo della situazione, di scavare in fondo al cuore di un artista e riesumarne le scelte.

Tantomeno la sua vicenda si può estendere a tutta la storia dell’arte rinascimentale o solo a quella del Quattrocento benché, di fondo, risulti esemplare: il pittore infatti, come figura sociale, stava prendendo sempre più coscienza di sé, sicuro ormai del valore critico delle proprie scelte. Non più semplice artigiano, non ancora genio quasi divinizzato come ai tempi di Michelangelo.

Francesco del Cossa è solo un uomo, la sua Supplica un documento che ci consente di porci delle domande, di ampliare la nostra coscienza storica, di individuare nuovi problemi nel nostro passato. Poco importa che la sua richiesta alla fine venga respinta e che lui, abbandonata la sua città natale, abbia finito i suoi giorni in terra straniera, a Bologna: le sue parole sono pregne di significato ancora oggi come il suo gesto.

Grazie signori della Giuria per la vostra attenzione, ho concluso.

 

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Per approfondire:
Vincenzo Gheroldi, Un conflitto sulla qualità tecnica della pittura murale a Ferrara al tempo di Borso d’Este, in Cosmè Tura e Francesco del Cossa, Ferrara, 2007, pp. 143-157.
Carlo Bertelli, Giuliano Briganti, Antonio Giuliano, Storia dell’arte italiana – Volume 2, Milano, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, 2009 (1990), pp. 354-357.
Redazione: Salvatore Ciaccio
Salvatore Ciaccio

Nato a Sciacca in provincia di Agrigento nel 1993, ho frequentato il Liceo Classico nella mia città natale per poi proseguire gli studi a Pavia, dove mi sono laureato in Lettere Moderne con una tesi dedicata all'architettura normanna in Sicilia.