Le fiabe polinesiane: storie dagli antipodi

Gauguin merahi metua no tehamana fiabe polinesiane

Ci sono case in cui, come ti volti, ti casca in testa un libro. La sorte ha voluto che nascessi in una di queste. Il libro in questione stava lì da non so quanto tempo, era grande e sottile come tutti gli altri suoi fratelli. Erano libri di fiabe ed erano tanto larghi che bisognava tenerli in orizzontale, in basso nella libreria, e non si poteva mica sfogliarli troppo, perché stavano dietro il servizio da toilette in porcellana della mamma, e chi sa mai che, tirando fuori il libro, qualcosa andasse storto e il piatto o il catino (o lo specchio, e sai che guai) si rompessero. C’erano fiabe di ogni paese, dalla Persia alla Germania, e poi in fondo c’era quel libro, di un paese che non sapevo neanche dove fosse esattamente, e che non si tirava mai fuori, era l’ultimo della pila e lì rimaneva ogni volta.

Avrò avuto sette o otto anni credo, quando l’ho preso in mano per la prima volta. C’era quel nome lì, Polinesia, che mi attirava. La terra dall’altra parte del mondo, una terra di isole, tante e sparpagliate, e su ognuna il suo popolo. I più famosi sono i Maori, quelli delle grandi piroghe intagliate nel legno, con queste polene meravigliose e terribili, che si chiamavano Tahiu, e proteggevano i guerrieri durante i loro viaggi. Ma vi erano anche i samoani, i tahitiani, gli abitanti delle isole marchesi, e di tutte quelle isole che punteggiano l’oceano.

Era un popolo che viveva nel mare e del mare. Un popolo navigatore di audacia incredibile, che sapeva costruire zattere e piroghe, e compiere chilometri e chilometri nel mare sfruttando le correnti aeree. Lo sapeva Thor Heyerdahl, un grande navigatore norvegese (per chi volesse salutarlo, la sua tomba sta ad Andora, in Liguria), che, per dimostrare che i popoli precolombiani avevano gli stessi antenati dei polinesiani, si mise su una zattera, il Kon Tiki, e percorse chilometri e chilometri, dal Cile fino a Thaiti, mostrando che sì, effettivamente è possibile, con una sola zattera, con le sole vele e i soli remi, percorrere quelle rotte in mare aperto.

Paul Gauguin, Quando ti sposi?, 1892
Paul Gauguin, Quando ti sposi?, 1892

La Polinesia è conosciuta da noi europei per altri due viaggi: quello compiuto da Stevenson, che viaggiava per cercare un clima favorevole alla sua salute, e Gauguin, che arrivò a Thaiti per cercare di conoscere questi indigeni, capire chi erano, fuggire la decadente Europa dipingendo, esprimendo un mondo antico e primordiale.

Gauguin poteva permetterselo. Poteva intravedere Adamo ed Eva, Buddha e gli antichi egizi sotto le spoglie dei thaitiani. Noi contemporanei siamo forse un pochino più esperti, dopo tanti anni di studi e di critica al colonialismo, all’eurocentrismo, ai pregiudizi che anche artisti onesti come lui non potevano fare a meno di avere. Ma allora, se quello dei popoli polinesiani non era l’Eden, cos’era?

Come tutti i cosiddetti «popoli senza storia», ci risultano sfuggenti, inafferrabili. È forse questo che li rende così affascinanti. Per fortuna, oltre alle canoe, oltre ai tatuaggi e pure alle danze che ormai fanno parte del patrimonio folklorico della Nuova Zelanda (sì, la famosa Ka Mate degli All Blacks) ci sono rimasti alcuni dei loro racconti.

Il libro grande grande che stava dietro il servizio da toilette non ce l’ho più: ad un certo punto è stato sostituito da altri libri, e da altri ancora. Però – cosa più unica che rara – l’ho ritrovato quasi uguale. Questo che ho sulle ginocchia è Racconti dei saggi della Polinesia, edito da L’ippocampo; decisamente più piccino e maneggevole, è corredato proprio dai dipinti di Gauguin. Si tratta di una ventina di fiabe raccontate da Céline Ripoll, artista e abitante dell’Isola di Pasqua.

La sua voce è sobria e piana, quasi infantile a volte, ma fa parte dello stile di queste fiabe, apparentemente (come tutte le fiabe) molto semplici. Certo, sarebbe stato bello premettere al libriccino due parole su come sono state raccolte, sulla datazione e su queste cose che annoiano i bambini ma interessano molto i grandi, perché danno un po’ di contezza dell’affidabilità antropologica di quello che si va a raccontare. Però, sfogliando la bibliografia, si può intuire che le più antiche risalgano all’Ottocento, e leggiucchiando il suo sito, si scopre che molte siano state raccolte da lei stessa. Ma con l’oralità non si può mai dire, può veramente darsi che alcune storie siano vecchie di secoli.

Antiche o nuove che siano, hanno una grazia tutta loro, per come personificano gli animali, per come parlano dei sentimenti umani, per come spiegano in maniera semplice cose difficili come la vita, l’amore, la vergogna. Alcune poi sono interessantissime perché parlano dei guaritori e mostrano che al guaritore interessava quello che oggi si chiamerebbe l’«equilibrio psicofisico» del paziente, e da lì il perché di quei riti assurdi che prescrivevano. Purtroppo i racconti sono sempre piuttosto didascalici, e questo fa sospettare che in realtà questi racconti siano nati in epoche recenti per riabilitare gli antichi metodi agli occhi degli scettici.

C’è in particolare una storia, di argomento piuttosto diverso, riguardo l’origine del mondo, che merita di essere letta e analizzata insieme. È proprio la prima, e viene dalla Nuova Zelanda:

Paul Gauguin Tre Tahitiani
Paul Gauguin Tre Tahitiani

Era la prima notte del mondo. Nell’oscurità risuonavano i sussurri amorosi di Papa e Rangi.

Papa, la Terra, e Rangi, il Cielo, erano i primi amanti del mondo: innamorati, si amavano senza sosta. Rangi sposava deliziosamente le forme di Papa tanto da impedire alla luce di raggiungere il mondo. Dalla loro divorante passione e dal loro caldo amplesso erano nati sei figli. (…) Stretti tra i loro genitori in una perenne oscurità, non potevano muoversi[1].

La prima notte del mondo. Niente luce, e due elementi, la Terra e il Cielo (che, possiamo pensare, preludono alle grandi opposizioni: alto/basso; maschile/femminile; caldo/freddo ecc…) uniti dall’amore in un unico abbraccio, in un’unica entità. L’abbraccio è, almeno nel racconto della Ripoll, molto molto fisico, e questo rende già poetico il quadro. Il mondo è generato esattamente come si genera un figlio. La personificazione e l’antropomorfizzazione sono alla base della poesia, sono il suo momento primo: per parlare alle cose, è necessario renderle umane.

Ma attenzione. Questo quadro apparentemente idillico appare subito problematico, conflittuale: i sei figli sono stretti nell’abbraccio dei genitori, e non possono muoversi. A differenza dei miti fenici o greci, o della stessa Bibbia, in cui l’elemento primordiale è il caos, la lotta dei venti, la ruah (il soffio di Dio) che aleggia sulle acque (simbolo dell’ignoto, del male, dell’instabilità), qui troviamo un ordine statico, una situazione potenzialmente eterna, cementata da un elemento che noi di solito consideriamo positivo, ma che viene tratteggiato come una passione accecante, divorante. E questo ordine stabile, però, genera quegli elementi di dinamismo, cioè i figli, che lo mettono subito in discussione. Su questa contraddizione si sviluppa tutto il mito. Andiamo avanti a leggere.

Infine trovarono rifugio nelle grotte della loro madre Papa. Un giorno, ritrovatisi tutti insieme dietro una di esse, decisero di agire di comune accordo. Niente doveva impedire loro di crescere, svilupparsi e assumere ciascuno la dimensione del proprio destino[2].

Paul Gauguin, Sei geloso?, 1892
Paul Gauguin, Sei geloso?, 1892

Come nella Teogonia di Esiodo, a un vecchio ordine del mondo deve subentrare un nuovo ordine. E questo ordine trova il suo simbolo nella ricerca della luce. La luce, il giorno, non è un regalo divino, ma una conquista. I sei figli sono immediatamente il simbolo di tutto il genere umano, che ha dovuto conquistare a fatica un suo posto, una sua luce nel mondo. Il rapporto genitore-figlio coincide del tutto con il rapporto realtà-essere umano: l’uomo, figlio del mondo e figlio degli dei, ha dovuto compiere un atto di ribellione nei confronti dei padri, e questo genera un primordiale conflitto, un primordiale dolore. Papa e Rangi, infatti, non reprimono i figli per proteggerli, ma per soddisfare un amore egoistico.

In secondo luogo, i figli rappresentano per la maggior parte delle forze naturali: il fuoco, la tempesta, l’oceano, la forza generatrice della terra (le patate dolci; le radici selvatiche). Tre di queste forze, inoltre, sono forze distruttrici, oscure. L’unico a non rappresentare una vera e propria forza è Tane, il padre delle foreste, che non a caso ha un ruolo determinante nel mito. Il racconto, infatti prosegue con una sorta di assemblea dei figli, che decidono il da farsi. Alcuni vorrebbero una ribellione violenta, altri sono spaventati dall’immensa forza che potrebbero scatenare.

A questa parte del racconto potremmo anche dare una lettura sociale, sulla legittimità dell’uso della violenza. Eppure, nel passaggio in cui la Ripoll scrive: «Tawhiri taceva: sapeva che più spazio avesse avuto, più avrebbe dovuto crescere, e a Tawahiri, padre delle tempeste, quella vastità faceva paura[3]» viene il dubbio che il fulcro del mito stia altrove. Andiamo avanti.

Tane, il padre delle foreste, è contrario all’uso della forza, e in questo rappresenta la parte più riflessiva della prole di Papa e Rangi. Dice: «Non è facendo del male ai nostri genitori che troveremo la nostra luce. Se vogliamo posto e spazio facciamo nascere la luce in noi stessi[4]». Il primo tentativo fallisce miseramente, e incomincia una vera e propria lotta: il padre del fuoco, Tu Matauenga, vomita fiamme contro Papa e Rangi. Ma anche questo è inutile: i due si stringono ancora più forte l’uno all’altro.

È Tane ancora una volta che, spingendo, soffiando, riesce lentamente a staccare i genitori dall’amplesso e, appoggiandosi sulle spalle, come una specie di Atlante, solleva il cielo e spinge coi piedi la terra in basso. È fatta. Papa urla di dolore (il che può anche essere letto come un richiamo al parto, volendo) e Rangi si incupisce, e poi urla furibondo, tempesta la terra di lampi per cercare suo figlio, pazzo di dolore e di collera. Una cosa del genere l’abbiamo vista giusto con il nostro Orlando: è la furia d’amore, l’ira tremenda. La passione è più forte di lui.

Paul Gauguin, Il seme dell'areoi, 1892 (particolare
Paul Gauguin, Il seme dell’areoi, 1892 (particolare)

A questo punto il racconto, assumendo un tono squisitamente eziologico[5], trova un suo scioglimento, per mezzo della comprensione di Papa, della Terra, che ristabilisce l’ordine perduto, assegnando ad ogni figlio un compito:

– Rangi, mio amore, mio cielo, guarda: sono qui, proprio sotto di te. Il mio corpo reca già i segni del tuo dolore. I nostri figli non hanno saputo crescere al di là del nostro amore. Guarda nostro figlio Tane, guarda le sue mani: sono diventate radici. Il suo corpo si è fatto tronco e i suoi piedi rami. Ci ha separati e tuttavia ci collega: lui è l’albero, il padre delle foreste.

Poi si rivolse ai figli:

Figli miei, vi siete messi contro vostro padre e adesso resterete al mio fianco. Tu, padre delle parate dolci, e tu, padre delle radici, crescerete al mio interno spuntandone con la sola testa per vedere vostro padre. Tu, padre dell’Oceano, mi bagnerai: Rangi mi vedrà a metà e la sua tristezza ne risulterà dimezzata. Tu, padre del fuoco, vivrai nelle mie profondità, sostituendo il calore dell’amplesso paterno: Tu, padre del vento, che non hai voluto prendere partito, errerai tra tuo padre e tua madre, tra Cielo e Terra. Tu, Tane, padre delle foreste che ci separi con i tuoi alberi, sappi che quando essi saranno spariti, Rangi, il Dio del cielo, riprenderà il suo amplesso e tutto tornerà come prima[6].

Oltre che un mito sull’origine del mondo, sul rapporto padri-figli, questo è il racconto di una forza sconvolgente, irrazionale, e dell’eterno tentativo razionale, umano, di placarla. Tane riesce a trovare un accordo con le forze naturali degli altri fratelli, con la tempesta, il fuoco, l’acqua, esattamente come l’uomo è riuscito ad aver ragione degli elementi, a costruirsi delle capanne, delle piroghe, a coltivare la terra, a capire i segreti della natura. Ma è la forza prima, l’amore primigenio tra cielo e terra su cui Tane non ha potere.

Alla fine, infatti, anche se è stato determinante, non è Tane a stabilire il nuovo ordine, bensì Papa: è alla terra che spetta l’ultima parola. L’uomo, come l’albero, può mettere in comunicazione cielo e terra; può cercare di dare un senso, una stabilità alle cose, all’amore, ai sentimenti, a queste forze che gli si agitano dentro: ma ogni volta queste rischiano di travolgere il suo fragile regime.

È il volto più oscuro e inquietante di quell’Amore «che muove il sole e le altre stelle», per riprendere la formula dantesca; un amore così accecante da essere costrizione per gli stessi Papa e Rangi, che non possono fare a meno di amarsi, non possono fare a meno di desiderarsi, sono preda l’uno dell’altro. Eppure, non riusciamo a condannarli. È amore: «chi lo provò, lo sa», direbbe Lope de Vega. In questo sta la tragicità del mito: l’impossibilità di schierarsi, di prendere una posizione netta; guardare le ragioni dell’uno e dell’altro, e non saper scegliere.

E così il mito si chiude malinconico:

E da quel primo giorno del mondo, notte e giorno, giorno e notte, Papa e Rangi continuano a sperare. Papa sospira e ogni mattina manda a Rangi, suo cielo, vaste cortine di bruma. Rangi piange lacrime di rugiada che ogni mattina depone sul corpo dell’amata[7].

 


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Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.