Tornare a Don Milani: l’attualità della Scuola di Barbiana

Don Milani Scuola di Barbiana, Lettera a una Professoressa

I giorni della scuola – VI

 

Ci si ricorda delle cose durante le ricorrenze. Stavolta tocca a Don Milani, di cui ieri si è celebrato il centenario dalla nascita. Come è stato sei anni fa, con i cinquant’anni di Lettera a una professoressa, è sorto un dibattito su cosa sia rimasto del suo pensiero, su cosa si sarebbe potuto attuare, dove sbagliasse. A differenza però di quell’altro dibattito, in cui tutti, davvero tutti[1], hanno scritto e hanno contribuito a soppesarne il carico di vuoti e di pieni, quest’anno sembra di assistere a un dibattito in sedicesimo.

La ragione di ciò è politica. Nell’era del Ministero dell’Istruzione e del Merito Don Milani è giusto l’eco di un modo di fare scuola che ha perso, ha fallito. Persino il discorso di Mattarella è sulla difensiva: ripropone integralmente il pensiero del nostro, ma il messaggio complessivo è quello di un’apologia, non di un elogio.

Purtroppo, questo tizio che portava il nome di Don Milani è una voce che arriva dal trapassato remoto, per chiunque abbia contezza di cosa sia la scuola oggi. Questo tizio che fino al liceo non aveva in mente né il sacerdozio né l’insegnamento, e che poi, tutt’a un tratto, legge un messale e si converte, è un mistero per chi è nato nel ventunesimo secolo. Chi sarà davvero Don Lorenzo, su che mistero l’abbia portato a trentun anni in un paesottolo sperduto del Mugello; che sarà quella vocazione gli abbiano fatto comprare una tomba in quel paesottolo, e l’abbiano convinto a non spostarsi più di lì. È chiaro che oggi ci appaia un alieno.

Ma non è solo questo. La scuola di Barbiana era un esperimento politico artigianale e rivoluzionario, che nella scuola dei protocolli ministeriali altisonanti, volti a insegnare le “cose importanti” agli studenti, vale a dire il mondo del lavoro e l’eccellenza (come guadagnare e come primeggiare, in sintesi), non ha semplicemente posto, ed è relegato tra le anticaglie di cui sbarazzarsi e da guardare anche con un po’ di disagio.

Per chi abbia a disagio invece le verifiche da fare e da correggere, tutti quei voti che si devono mettere in fila per fare poi la famosa media matematica, i gruppi whatsapp delle madri, e poi il registro elettronico dove i genitori possono vedere se il figlio ha fatto i compiti, e quali, e come, e se è andato in bagno regolare, la lettura di Lettera a una professoressa è davvero liberatoria.

Scuola di Barbiana

È come un messaggio in bottiglia da un’epoca e un luogo sconosciuto e favoloso, da cui apprendere che gli umani non sono chiamati a trovare la lor casellina preconfezionata nel mondo, ad occuparne i posti liberi come se fossero degli ingranaggi. Leggere di questa scuola, dove tutto è collettivo, dove “non si va avanti finché tutti non hanno capito”, dove ci si insegna a vicenda, e dove tutti imparano da tutti, mostra che è esistito un modo di fare scuola che non sia la vittoria del sapere nozionistico, dell’accademismo, del praticismo a tutti i costi. Che la scuola non sia semplicemente l’anticamera del lavoro.

E Lettera a una professoressa mostra tutto questo oltre che con i suoi contenuti, con il suo stile. Con una lingua estremamente forte, estremamente precisa. È uno stile tagliente, così diverso dalla prosa saggistica o, peggio, dalla prosa scolastica. La voce che ci parla e ci racconta rivela una personalità matura. Verrebbe da dire che è uno stile personalissimo, quello della lettera dei ragazzi di Barbiana. Peccato che, personalissimo, non lo sia affatto. Perché è un libro collettivo. Non l’ha scritto Don Milani. Non l’ha scritto una persona sola.

Con questo libro i ragazzi di Barbiana fanno di più che scrivere una lettera sulla scuola e sull’insegnamento. Con questo libro i ragazzi insegnano ai professori a scrivere. Buttano a mare tutta l’idea romantica del genio, della personalità eccelsa dello scrittore, dello scrittore come una cosa a sé, a parte, diversa dagli altri. Dello scrittore come una cosa preziosa.

Le regole con cui scrivono, valgono per tutti. Tutti possono impararle, e tutti possono scrivere in quel modo, scrivere con quella facilità e naturalezza. Altrimenti, perché si insegna? Perché si deve insegnare a scrivere, se siamo convinti che tanto ad impararlo siano solo i geni, sia solo chi di quell’insegnamento non ha bisogno?

E infatti, eccetto le scuole di «scrittura creativa», nessuno insegna a scrivere. Si insegna «l’italiano»; si insegna «letteratura», ma a scrivere, poco e di fretta. Perché per scrivere ci vuole tempo, ci vuole dedizione. Bisogna anche saper scrivere, per insegnare a scrivere. Tutto questo, nella scuola delle precisissime analisi, degli schemini, delle valutazioni con la calcolatrice e il bilancino, non è semplicemente possibile. Ci vorrebbero troppe ore, troppo tempo, troppo di tutto. E allora si lascia perdere.

Scuola di Barbiana
Scuola di Barbiana

Però i ragazzi di Barbiana scrivevano in un modo che oggi chiunque si sognerebbe. Ci sono due pagine interamente dedicate alla stesura stessa dell’opera. Pagine che spiegano in modo sintetico che per scrivere non bisogna essere geni. Bisogna seguire alcune regole semplici.

L’arte dello scrivere si insegna come ogni altr’arte.
Ma a questo punto abbiamo leticato tra di noi. Una parte voleva raccontare come facciamo a scrivere. Un’altra parte diceva: «L’arte è una cosa seria, ma fatta d’una tecnica piccina. Rideranno di noi».
I poveri non rideranno. I ricchi ridano pure e noi ridiamo di loro che non sanno scrivere né un libro né un giornale al livello dei poveri[2].

Semplice e pregnante. Lontanissimo dalla prosa che si insegnava (e si insegna) a scuola. Frasi brevi, concise. Dritte al punto. È la stessa operazione che compiono Pavese, Vittorini, Calvino quando nel dopoguerra si rinnova la prosa, grazie all’influsso della letteratura americana. Non è detto, e non è nemmeno importante, che i ragazzi abbiano davvero letto Vittorini e Calvino. L’importante è che si siano misurati con gli stessi problemi. Ecco un virus dell’accademismo: l’intertestualità, le fonti: credere che se due autori scrivono la stessa cosa, o scrivono in modo simile, l’uno ha copiato dall’altro. No, si è trovato nella medesima situazione.

Il procedimento adottato per la scrittura dai ragazzi è sorprendente: è un processo pratico, che parte dalla carta, dalla penna e dalle forbici: tutti i ragazzi prendono appunti su dei foglietti che tengono sempre in tasca, poi si mettono i foglietti tutti insieme su un tavolo, si dividono per argomento, se ne fanno mucchietti e i mucchietti diventano i paragrafi e i capitoli, e si costruisce lo schema dell’opera.

Si ciclostila per averlo davanti tutti eguale. Poi forbici, colla e matite colorate. Si butta tutto all’aria. Si aggiungono foglietti nuovi. Si ciclostila un’altra volta.

Comincia la gara a chi scopre parole da levare, aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola.

chiesa di Barbiana
Veduta di Barbiana

Poi arriva un’ultima parte, considerata parte integrante del lavoro: chiedere pareri. La scrittura deve essere indirizzata a qualcuno: se questo qualcuno non capisce, allora che si scrive a fare? Però attenzione: scrivere per qualcuno non significa compiacerlo. Accettano tutti i consigli di chiarezza, ma rifiutano quelli di prudenza: non hanno paura di dire ciò che pensano, anche se questo può avere delle conseguenze.

Dopo che si è fatta tutta questa fatica, seguendo regole che valgono per tutti, si trova sempre l’intellettuale cretino che sentenzia: «Questa lettera ha uno stile personalissimo».

Dite piuttosto che non sapete cos’è l’arte. L’arte è il contrario di pigrizia.

(Scuola di Barbiana, op cit., p. 127)

I filologi hanno un feticismo per le stesure dei libri. Credono che stia lì il segreto di un’opera. Ecco, Lettera a una professoressa è uno di quei casi in cui effettivamente bisogna dare ragione ai filologi: il procedimento con cui è scritto è anche, in un certo senso, il suo segreto. Fior di scritti accademici sono molto più impersonali, banali, piatti. Invece con la scrittura collettiva ognuno migliora l’altro, se tutti hanno la giusta sensibilità.

Certo, scrivere un romanzo facendo mucchietti e paragrafetti non sarebbe una grande idea. Eppure nello stile, nelle loro parole c’è qualcosa che va al di là dell’argomentazione, c’è una capacità di sintesi quasi poetica, c’è l’asciuttezza, come dicevamo, di tanta letteratura del dopoguerra.

Non c’è scuola pubblica che insegni a fare questo. Che metta lì i ragazzi, tolga loro la speranza di essere «speciali», «diversi», e li spinga ad un lavoro collettivo che duri un intero anno, e non due o tre lezioni. La diversità, nella scuola, invece di essere risorsa è un metodo per mettere gli uni contro gli altri. È la diversità dell’8 e del 6, e del 4. È la diversità di Pierino, che «ha il dono».

Ma c’è ancora dell’altro. Nella Lettera, anche in questo passo, mostra sempre, senza vergogna, la provenienza degli autori. La provenienza sociale e la provenienza geografica. Non è necessario fare il censimento dei toscanismi per accorgersene. È così che la Lettera una voce propria, una voce vera. Non è scritta in quell’antilingua che è l’italiano colto, nella lingua da salotto di quei saggi in punta di penna, scritti fitti fitti perché non si capisca niente.

Don milani scuola di barbiana

La Lettera è sparsa di riflessioni sulla grammatica e sulla lingua, e sono riflessioni tutt’altro che estemporanee. È vero che non c’è confine tra latino e italiano; è vero che la lingua muta e le grammatiche cristallizzano semplicemente le mutazioni. Rispetto all’idea della regoletta da imparare a memoria, è un enorme passo avanti verso un’idea di lingua viva, che si possa modificare e plasmare.

Non c’è poesia senza uno spirito popolare. Ecco il vero insegnamento della Lettera: lo studente non è materia informe da «formare». Lo studente arriva con un suo bagaglio culturale che viene dal suo popolo, dalla sua terra. E questo bagaglio culturale non è meno importante, anzi. È lo spirito popolare, lo spirito di quelle terre del Mugello, il sapere dei contadini e dei montanari che interessa ai ragazzi e a Don Milani.

E oggi, dov’è lo spirito popolare della nostra società? Dove sono i popoli, che cultura materiale esprimono? Sono queste le domande che la Lettera, indirettamente, pone. Non è solo un discorso sulla scuola, sull’insegnamento, ma sulla società tutta. Una società senza radici, senza quella cultura popolare, non sarà mai una società viva, sarà sempre una società che rincorre qualcosa. Rincorre la cultura materiale delle classi più agiate, rincorre lo stile di vita di altri paesi. Si sentirà senza identità e non saprà più come darsela; crederà di darsela, costruendosela artificialmente attraverso la propaganda.

Lettera a una professoressa non racconta solo di una scuola perduta. Racconta di una società che nel suo insieme non esiste più. Certo, è facile fare moralismi. È facile dire che l’ieri era meglio dell’oggi, e riempire pagine di felici contadini pasoliniani, quando invece la civiltà contadina era miseria e abbrutimento, e freddo, e ignoranza e valori morali bigotti. Ma nello stesso tempo qualcosa per strada ce lo siamo persi.

Questo qualcosa lo troviamo nell’artigianalità della Lettera, nell’artigianalità di una scuola dove, contavano le relazioni tra le persone e le relazioni tra le cose; anzi, dove capire la realtà non significava capire le cose, ma capire proprio in che modo queste sono interconnesse. Quella della Lettera è una cultura che serve, che è utile alla vita, che è uno strumento di cura per sé e per gli altri. Che serve a non accettare la miseria e la povertà, ma a trovare una via di uscita da essa che sia collettiva. Una cultura che sia il contrario del successo personale, che poi si traduce semplicemente nel prendere posto in un mondo deciso da altri.

Quella della Lettera è la fatica del lavorare insieme, del costruire insieme, del fare società, fare comunità. Ed è questa la cosa che più di tutti ci siamo persi, da quel lontano giorno in cui Don Lorenzo si accingeva a partire per un paesottolo minuto e sconosciuto degli Appennini.

 


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Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.